Una delle teorie più accreditate sulla formazione galattica sostiene che le grandi galassie come la Via Lattea si siano formate dalla fusione di galassie più piccole. La teoria prende il nome di Hierarchical Clustering. Grazie al satellite Gaia dell’ESA, i ricercatori erano già riusciti a provare la sua veridicità per la Via Lattea. Ma che cosa dire riguardo alle altre galassie là fuori?
Uno studio recente di un team di ricercatori italiani e olandesi ha preso in considerazione la Grande Nube di Magellano, la più grande galassia satellite della nostra Via Lattea. Con opportune considerazioni riguardo gli ammassi globulari, ha dimostrato che questa galassia è nata dopo averne assorbita una ancora più piccola nelle vicinanze.
Gli ammassi globulari nelle galassie
Attorno al centro di una galassia ruotano degli ammassi incredibilmente densi di stelle, attratte molto vicine tra loro dalla forte forza di gravità. Questi sono detti ammassi globulari (in inglese globular clusters) e il loro nucleo può resistere all’attrazione della galassia ospite anche dopo miliardi di anni. Ci sono prove che molti degli ammassi globulari che oggi appartengono alla nostra galassia siano stati acquisiti dalle precedenti galassie più piccole dalla cui fusione si sarebbe formata.
Lo studio della Grande Nube di Magellano
Il modo migliore per testare la teoria dell’Hierarchical Clustering al di fuori della nostra galassia è studiare la Grande Nube di Magellano, una galassia più piccola della nostra e a essa molto vicina. In particolar modo, i ricercatori hanno studiato la composizione chimica di undici ammassi globulari che orbitano al centro della Grande Nube di Magellano, raccolti dal Very Large Telescope e dai telescopi Magellan in Cile.
Tra questi ammassi globulari, NGC 2005 è risultato avere una composizione chimica totalmente differente: contiene meno zinco, rame, silicio e calcio rispetto agli altri. Esso è composto da 200.000 stelle e si trova a 750 anni luce di distanza dal centro della Grande Nube di Magellano.
NGC 2005, l’ammasso globulare dato da tutt’altra parte
Lo studio della composizione chimica permette d’identificare stelle e ammassi “fuori posto”. La loro anomala composizione chimica è in contrasto con l’ambiente in cui si trovano ora a vivere. Tuttavia, individuare stelle chimicamente anomale in una data galassia richiede:
- un’alta risoluzione spettroscopica per campioni di grandi dimensioni
- un’analisi approfondita dell’abbondanza chimica, facendo attenzione al variare di determinati parametri che potrebbero modificare completamente l’esito della ricerca.
Per riuscire a capire se anche la Grande Nube di Magellano è testimone di un precedente evento di fusione, gli scienziati hanno analizzato gli ammassi globulari orbitanti attorno alla galassia. Hanno ricavato dagli spettri ad alta risoluzione le quantità di elementi chimici nei diversi ammassi, e hanno scoperto che l’ammasso NGC 2005 risulta essere completamente diverso dagli altri. Esso, quindi, non apparterrebbe da sempre alla Grande Nube di Magellano, ma sarebbe stato da questa acquisito in seguito a un precedente evento di fusione con un’altra galassia più piccola.
Trovata la prova di una antica fusione tra galassie
Il ricercatore Davide Massari, che lavora in Italia e all’Università di Groningen, è entusiasta: “In realtà stiamo assistendo a una reliquia di una precedente fusione” spiega. La galassia a cui apparteneva in origine l’ammasso NGC 2005 deve essersi fusa miliardi di anni fa con la Grande Nube di Magellano di allora, senz’altro più piccola. Nel corso del tempo, la maggior parte delle stelle della galassia più piccola si è dispersa, mentre l’ammasso globulare NGC 2005 è rimasto.
Esistono galassie nane nate da altre galassie
“Abbiamo dimostrato in modo convincente, per la prima volta, che le piccole galassie vicine alla nostra Via Lattea sono state a loro volta costruite da galassie ancora più piccole” conclude Massari. Questa prova sarà fondamentale nello studio delle galassie satellite molto antiche, quelle che potrebbero rivelarci i segreti dell’Universo primordiale.
Lo studio completo, pubblicato su Nature Astronomy, è disponibile qui.
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