Il meccanismo che porta alla formazione di un sistema planetario è stato a grandi linee compreso. Tuttavia, alcune fasi di questo processo continuano a non avere una chiara spiegazione, rendendo complicato individuare le proprietà precise che deve avere un disco protoplanetario per formare determinate tipologie di pianeti. Un gruppo di ricerca guidato da Andrè Izidoro, ricercatore presso la Rice University, ha simulato l’evoluzione di un disco circumstellare, modificandone proprietà fisiche e chimiche. L’obbiettivo è quello d’individuare cosa ha portato alla formazione dei quattro pianeti del sistema solare interno.
Pressure bumps: cosa sono?
Il disco protoplanetario è la struttura di gas e polveri che circonda la stella nelle prime fasi della sua esistenza. In esso, si distinguono diversi anelli, sinonimo della formazione di pianeti in corso, delimitati da quelli che vengono chiamati “pressure bumps“, ossia sbalzi di pressione. Qui la pressione ha valori inferiori rispetto alle zone circostanti e la composizione del disco varia. In particolare si possono distinguere tre diversi dischi:
- Il più interno delimita la regione della struttura circumstellare più vicina alla stella. Qui le temperature elevate del disco (maggiori di 1400 K) rendono gassosi i composti di silicato e impediscono la formazione dei pianeti;
- La snowline, a 170 K di temperatura circa, definisce la zona di transizione dell’acqua dallo stato di vapore a quello solido. Oltre questa linea si formano gli esopianeti che vengono classificati come giganti ghiacciati;
- La CO-snowline, che si aggira attorno ai 30 K, rappresenta la regione in cui il monossido di carbonio si solidifica.
Il ruolo di questi sbalzi di pressione è quello di facilitare la formazione dei planetesimi. Si ipotizza che questi oggetti, di dimensioni tra i 10 e 100 km di diametro, siano i mattoni necessari alla formazione dei pianeti. I grani di polvere del disco, che si muovono verso il centro del sistema, si accumulano nei confini degli anelli circumstellari, fermati dalle variazioni di pressione. Qui diventano pebbles, componenti rocciose delle dimensioni di sassi, e successivamente planetesimi.
Le simulazioni sulla formazione dei pianeti del sistema solare interno
Per capire il ruolo dei pressure bumps nell’origine di pianeti all’interno di un disco protoplanetario, il team di astronomi ha sviluppato delle simulazioni comprendendo nel modello le tre transizioni sopra descritte. Lo studio ha osservato la crescita degli embrioni planetari di tipo terrestre a circa 1 UA (unità astronomica uguale a 150 milioni di km) di distanza dalla stella centrale.
Le simulazioni sono state eseguite variando le proprietà del disco, come composizione e temperatura. Questi cambiamenti sono importanti per comprendere quali ingredienti sono la chiave per ottenere un risultato simile a quello del nostro Sistema Solare. In particolare si è osservato che, se nella regione successiva al primo sbalzo di pressione, si trova materiale equivalente in massa a 2.5 Terre, allora i pianeti si formeranno con dimensioni simili a Marte. Se il disco invece è più massivo si ottengono delle super-Terre, equivalenti a un corpo di 2-10 masse terrestri. Entrambi queste tipologie di pianeti si troverebbero nella zona interna del sistema planetario, come nel caso del nostro sistema solare.
Questa distinzione deriva non solo dalla quantità di materiale presente nelle regioni del disco separate dai pressure bumps, ma da quando si formano questi sbalzi. Esopianeti terrestri infatti, sono favoriti nel caso in cui le due transizioni limitrofe alla stella si verificano nelle prime fasi evolutive del disco. Nel caso in cui invece queste si sviluppano con ritardo, i pianeti extrasolari originati saranno più massicci.
Inoltre, attraverso le simulazioni è stato possibile spiegare la composizione dei pianeti: il nucleo ferroso di Terra e Venere deriva dalla regione più vicine al Sole, entro l’orbita terrestre; quello marziano invece, probabilmente solido e con una certa componente di zolfo, è costruito da materiale proveniente da regioni più lontane.
La cintura di asteoridi
La ricerca degli astronomi si è estesa anche alla comprensione dell’accumulo dei planetesimi nella cosiddetta cintura di asteroidi, asteroids belt. Essa è localizzata tra Marte e Giove e ospita centinaia di piccoli corpi, probabilmente derivati dalle collisioni tra oggetti più massivi.
Le simulazioni hanno inizialmente mostrato la regione oltre Marte quasi priva di planetesimi. Successivamente però, sia quelli interni, che quelli esterni, a seguito dell’interazione con i pianeti in evoluzione e per effetto d’instabilità, si sono avvicinati all’odierna regione della cintura di asteroidi, rimanendovi intrappolati.
Anche in questo caso, la composizione di questi oggetti può essere spiegata attraverso i modelli elaborati. Le due popolazione distinguibili sono quella degli asteroidi di tipo S e di tipo C. La prima tipologia racchiude oggetti composti prevalentemente da silicati, probabilmente ottenuti da corpi vaganti nella regione interna all’orbita di Marte. La seconda invece, che raggruppa asteroidi costituiti principalmente da carbonio, proviene dalle regioni più esterne del sistema.
L’evoluzione del Sistema Solare esterno
Le ricerche future degli astronomi del team saranno ora volte alla comprensione della formazione del sistema solare esterno. Qui si trovano i giganti gassosi e ghiacciati: Giove, Saturno, Urano e Nettuno. Grazie a questo studio sarà possibile comprendere a fondo l’evoluzione dell’interno Sistema Solare, che fino a ora si presenta come una rarità nell’insieme di sistemi planetari scoperti nell’Universo.
La peculiarità del complesso meccanismo di corpi in orbita attorno al Sole non è tuttora chiara. Sebbene il numero di pianeti extrasolari scoperti cresca a dismisura di anno in anno, prima di poter comprendere a fondo la loro storia sono necessari moltissimi sforzi, tecnologici e scientifici. Il nostro Sistema Solare è raro anche per un bias osservativo: non siamo ancora in grado di scovare pianeti simili alla Terra e sistemi planetari simili al Sistema Solare.
C’è ancora molto lavoro da fare, ma finalmente a oggi sappiamo che la formazione della Terra, così come quella dei mondi a lei vicini, è dovuta a sbalzi di pressione all’interno del disco che circondava un giovanissimo Sole.
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