And we have liftoff!
Quante volte, durante le live di SpaceX, abbiamo sentito pronunciare queste parole, che annunciano il distacco da terra dell’esile profilo del Falcon 9 e l’inizio della sua ascesa verso lo spazio. Da qui gli eventi si susseguono rapidamente.
Per primo avviene il Max Q, il momento di massima sollecitazione aerodinamica sul veicolo, che quasi coincide con il passaggio al regime supersonico. Poi le telemetrie testimoniano un incremento sempre più marcato della velocità, fino al cosiddetto MECO. Questo acronimo, abbreviazione di Main Engine Cut Off, indica lo spegnimento dei nove motori Merlin montati sul primo stadio.
Solo pochi secondi dopo, il booster lascia spazio al secondo stadio, incaricato di condurre il carico sull’orbita corretta. Ed è in questo istante che, a seconda della missione, il primo stadio può intraprendere due cammini diversi.
Rientro in oceano
Questo profilo di missione è generalmente richiesto per le missioni con un payload più pesante o che mirano ad orbite particolarmente energetiche, caratterizzate da un maggiore dispendio di carburante nelle prime fasi del volo. L’esempio più comune è dato dalle missioni Starlink.
Come riportato nell’immagine, la traiettoria seguita dal primo stadio è parabolica. In seguito al distacco del secondo stadio, il booster ruota di 180° attorno all’asse trasversale, così da puntare i motori nella direzione del moto. Per compiere questa manovra si usano thruster a gas freddo (azoto). Questi motori in miniatura sono molto affidabili, vengono montati alle estremità del veicolo e sono facilmente riconoscibili nelle live dai tipici sbuffi bianchi che emettono quando azionati.
Seppur a motori spenti, sotto effetto dell’inerzia il primo stadio prosegue il suo moto ascendente, fino a raggiungere una quota che varia da missione a missione, ma che è sempre superiore ai 100 kilometri. Da qui ricade balisticamente verso terra.
Se negli strati più alti dell’atmosfera tutte le correzioni di assetto avvengono tramite i thruster appena citati, un altro tipo di dispositivo interviene quando il booster scende negli strati più densi: le grid fins. Sono le tipiche griglie poste nella parte superiore, e costituiscono il singolo pezzo in titanio più grande mai costruito. Analogamente ai thruster, hanno il compito di correggere l’assetto del booster e di stabilizzarlo durante la discesa. La loro forma le rende particolarmente efficaci nel regime supersonico.
La differenza con il rientro degli altri razzi
Vale la pena sottolineare che tutti i primi stadi dei lanciatori, in seguito all’esaurimento del propellente, ricadono balisticamente verso terra. La differenza sostanziale sta nel fatto che il Falcon 9 controlla attivamente la propria discesa, evitando di essere fatto a pezzi dal rientro atmosferico.
La fase più critica del rientro consiste nel superare indenne la fascia tra i 30 ed i 60 kilometri di quota, simpaticamente battezzata “il muro” da Peter Beck – fondatore di RocketLab – azienda statunitense intenzionata a recuperare i primi stadi del proprio lanciatore Electron. Qui, sotto l’effetto combinato della velocità di caduta e della densità atmosferica, il veicolo sperimenta sollecitazioni aerotermiche elevatissime, cui sarebbe impossibile sopravvivere in assenza di azioni mitiganti. L’asso nella manica del Falcon 9 prende il nome di retropropulsione supersonica.
Mantenendosi in posizione quasi verticale, con gli scarichi direzionati verso il suolo, tre Merlin si accendono per effettuare la cosiddetta “entry burn”, della durata di 20/25 secondi. Questa manovra consente al booster di superare “il muro” senza disintegrarsi.
Il principio è tanto semplice quanto efficace: oltre ad un rallentamento del veicolo, l’accensione dei motori genera una “bolla” di gas di scarico che avvolge e protegge il booster. Come effetto collaterale, esso si annerisce, segno distintivo di tutti i veicoli con più di un rientro alle spalle.
Al termine della entry burn, se questa ha avuto esito positivo, il primo stadio si trova ancora integro e direzionato verso il punto di atterraggio. Ad attenderlo in mezzo all’oceano, a qualche centinaio di kilometri dal sito di lancio, c’è una chiatta grande come un campo da calcio, appositamente progettata da SpaceX. Si tratta di una ASDS, acronimo per Autonomous Spaceport Drone Ship.
Il rientro in oceano, per quanto vantaggioso sia dal punto di vista economico per via del recupero del veicolo, rappresenta però un vero incubo logistico. La chiatta necessita di almeno tre giorni per posizionarsi ed altrettanti per rientrare in porto, dopodiché il booster deve essere sollevato e trasportato via tir fino agli hangar di SpaceX a Cape Canaveral. Tutto questo senza considerare le condizioni meteomarine, che più di una volta hanno complicato il tutto e portato a rinviare i lanci.
Esiste però un’alternativa, più onerosa in termini di propellente e dunque adottabile solo in presenza di carichi leggeri o diretti verso orbite poco energetiche. Un esempio sono le missioni CRS, tramite le quali la capsula Dragon rifornisce la Stazione Spaziale Internazionale.
Rientro al sito di lancio
In questo caso, il Falcon 9 può effettuare un ritorno diretto al sito di lancio di Cape Canaveral, ciò che in gergo è definito RTLS (Return To Launch Site). Qui, a poca distanza dai propri hangar, SpaceX ha costruito due zone di atterraggio: le Landing Zones 1 e 2.
Come accennato poc’anzi, questo profilo di missione richiede un consumo maggiore di propellente rispetto al rientro balistico in oceano aperto. Ciò è dovuto ad una ulteriore accensione dei Merlin, da effettuarsi immediatamente dopo la rotazione di 180° che segue la separazione del secondo stadio.
Questa manovra, battezzata “boostback burn”, sfrutta la spinta di tre motori per azzerare la velocità orizzontale acquisita dal veicolo nella prima fase del volo. La sua combinazione con l’inerzia ascensionale risulta in un profilo di missione “ad otto”, come riportato nell’immagine poco sopra.
In seguito alla boostback burn, la procedura di discesa è identica a quanto descritto per il rientro in oceano. Anche in questo caso dunque si rende necessaria una entry burn per sopravvivere allo scontro con “il muro”.
Touchdown!
Indipendentemente dal profilo di missione e dal luogo di atterraggio – sia esso una chiatta in mezzo all’oceano o uno spiazzo di cemento – negli ultimi cinque kilometri il primo stadio si comporta alla medesima maniera. Il primo aspetto da precisare è che, a seguito della entry burn, il booster non è mai perfettamente allineato al sito di atterraggio, ma mira volutamente ad un punto distante circa 100 metri dal luogo designato. Questa scelta potrebbe apparire a prima vista controproducente, ma SpaceX ci ha abituati al fatto che nulla viene lasciato al caso.
Il motivo risiede nella eventualità – seppur remota – che il veicolo sia vittima di un malfunzionamento nelle fasi finali del rientro. Se ciò avvenisse, la ASDS o la Landing Zone subirebbero danni ingenti ed i lanci successivi ne pagherebbero i ritardi. Per quanto rari, malfunzionamenti del genere hanno già avuto luogo, come vedremo a breve.
Le ultime correzioni, necessarie a colmare il disallineamento, vengono effettuate durante gli ultimi 20/25 secondi di volo, periodo durante il quale avviene la “landing burn”. Essa ha inizio ad una quota di circa 5 kilometri e viene eseguita con un solo Merlin. Come il nome suggerisce, questa manovra ha il compito di arrestare la caduta del veicolo, permettendogli di appoggiarsi delicatamente al suolo con le sue quattro gambe.
I fallimenti
SpaceX ha recuperato il primo booster a Dicembre 2015, dopo anni di tentativi, e anche dopo quella data i fallimenti non sono mancati. L’azienda non ha mai nascosto i propri insuccessi, anzi, ne ha fatto una filosofia di vita. Come disse una volta lo stesso Musk “se non sbagli mai, significa che non stai innovando abbastanza”, e per ironizzare su questi eventi è stato addirittura rilasciato un ironico video ufficiale dal titolo “come non far atterrare un booster”.
Analizziamo ora due lanci che hanno portato l’azienda alla perdita di altrettanti veicoli.
Il 6 Febbraio 2018, SpaceX lancia per la prima volta il Falcon Heavy. Si prevede per il booster centrale un atterraggio su una ASDS, ma nella live lo si vede inabissarsi nell’oceano proprio di fianco alla chiatta. Analisi successive hanno evidenziato la mancanza di fluido necessario alla riaccensione dei Merlin per effettuare la landing burn. In questo caso, il disallineamento citato prima ha salvato la nave drone da danni probabilmente irreparabili, considerato che al momento dell’impatto il booster viaggiava a circa 600 km/h. Qui un video che riporta alcuni fotogrammi dell’impatto.
Il 5 Dicembre dello stesso anno – stavolta il rientro è di un Falcon 9 – SpaceX lancia la capsula Dragon verso la Stazione Spaziale con la missione CRS-16. Il booster dovrebbe rientrare direttamente a Cape Canaveral, sulla Landing Zone 1. Poco dopo il dispiegamento delle grid fins, però, il primo stadio inizia ad oscillare pericolosamente. Si scoprirà dopo che proprio una delle grid fins ha subìto un malfunzionamento (più precisamente ha stallato), il che spingerà a moltiplicare i loro sistemi di azionamento nei prossimi lanci. Anche in questo caso, il disallineamento ha scongiurato ulteriori perdite. Qui il video in soggettiva dal booster.
Ricapitolando..
Le missioni che permettono a SpaceX di riportare sulla Terra il primo stadio possono essere raggruppate in due categorie:
- Rientro in oceano, che prevede due accensioni: la entry burn e la landing burn;
- Rientro a terra, che prevede una terza accensione: la boostback burn, effettuata immediatamente a valle della separazione dal secondo stadio.
Per poter apprezzare la complessità dell’intera procedura di rientro, si pensi che il booster di un Falcon 9 ha un diametro di poco inferiore a 4 metri ed è alto 45 metri: come un palazzo di 15 piani. Si può stimare, all’inizio della landing burn, un peso comprensivo del propellente residuo di circa 35 tonnellate.
I grandi protagonisti dei rientri sono senza dubbio i motori Merlin, gioielli dell’ingegneria in grado di erogare poco meno di 100 tonnellate di spinta massima. Ma in questo frangente assume maggiore importanza la spinta minima che il motore può erogare prima di incorrere in una combustione instabile e, di conseguenza, nel rischio di spegnimento. La capacità di un motore spaziale di regolare la propria spinta è chiamata throttling, ed un Merlin è in grado di scendere fino a circa 50 tonnellate.
Ciò comporta, durante la landing burn, un eccesso di spinta di non meno di 15 tonnellate (50 meno 35), destinato ad aumentare con il passare dei secondi per via del consumo di propellente. Tutto ciò si traduce nella presenza di uno ed un solo istante utile all’accensione del motore.
Un ritardo non permetterebbe un rallentamento sufficiente e terminerebbe con un impatto al suolo. Un anticipo porterebbe il booster a fermarsi a mezz’aria, per poi risalire sotto l’effetto dell’eccesso di spinta. Inutile descrivere cosa accadrebbe terminato il propellente. Questo è solo un assaggio della complessità di una manovra che, dopo oltre sessanta successi, è ormai da molti considerata routine.
SpaceX è ora impegnata nello sviluppo di un lanciatore completamente riutilizzabile, battezzato Starship ed anch’esso composto di due stadi. Il booster utilizzerà una tecnica molto simile a quella appena descritta. La navicella adotterà invece una manovra mai tentata prima, denominata “belly flop” e che verrà trattata in un approfondimento dedicato.
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