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| On 3 mesi ago

Ecco (forse) perché troviamo così pochi esopianeti grandi due volte la Terra

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Di esopianeti ne abbiamo scoperti molti, e ne stiamo scoprendo sempre di più. Ciò ci ha permesso di conoscerne varie tipologie, e soprattutto, di suddividerli per la loro grandezza. C’è però un divario, un gap, in questa distribuzione: il numero di esopianeti scoperti con un raggio circa doppio rispetto a quello della Terra è relativamente basso. Al contrario, ci sono molti esopianeti più piccoli e più grandi di queste dimensioni.

Questo divario, anche detto radius valley, Fulton gap o Sub-Neptune Desert, potrebbe essere spiegato con la migrazione planetaria. Lo ha proposto un team di astronomi tedeschi e svizzeri, guidati dal ricercatore Remo Burn del Max Planck Institute for Astronomy di Heidelberg.

Le simulazioni al computer del team, infatti dimostrano che la migrazione dei cosiddetti sub-Nettuni, con raggio inferiore a 3 raggi terrestri, nelle regioni interne dei loro sistemi planetari potrebbe spiegare questo fenomeno. Avvicinandosi alla stella centrale, l’evaporazione del ghiaccio d’acqua forma un’atmosfera che fa apparire i pianeti più grandi rispetto allo stato ghiacciato. Allo stesso tempo, i pianeti rocciosi più piccoli perdono gradualmente una parte del loro involucro gassoso originario, facendo sì che il loro raggio misurato si riduca nel tempo.

Super-Terre e sub-Nettuni: il gap del raggio negli esopianeti

Il gap del raggio planetario si riferisce alla scarsità osservata di pianeti con raggi compresi tra 1.5 e 2 volte il raggio terrestre. Ne abbiamo trovati, ma sono molto rari, molto di più rispetto a tutte le altre categorie.

Due diversi tipi di esopianeti popolano le due regioni, nella distribuzione di esopianeti per dimensione, che circondano il gap:

  • Da un lato ci sono i pianeti rocciosi, che possono essere più massicci della Terra e sono quindi chiamati super-Terre.
  • Dall’altro lato, gli astronomi stanno scoprendo sempre più spesso i cosiddetti sub-Nettuni e mini-Nettuni in sistemi planetari lontani, che sono in media più grandi delle super-Terra, ma con raggio inferiore a 3 volte quello terrestre.

Nel nostro Sistema Solare, questa classe planetaria non c’è. Venere ha le dimensioni della Terra, Mercurio e Marte dimensioni inferiori, e poi arrivano subito i giganti gassosi e ghiacciati, con raggi nettamente superiori. Per questo motivo, ancora oggi, non siamo esattamente sicuri della struttura e composizione dei corpi planetari che colmerebbero questa lacuna.

Distribuzione dimensionale degli esopianeti osservati e simulati con raggi inferiori a cinque raggi terrestri. Il numero di esopianeti diminuisce tra 1.6 e 2.2, producendo una distribuzione a valle pronunciata. Invece, sono presenti più pianeti con dimensioni intorno a 1.4 e 2.4 raggi terrestri. Credits: R. Burn, cap. Mordasini/MPIA

La migrazione dei sub-Nettuni

Il meccanismo più comunemente suggerito per spiegare il gap del raggio è che i pianeti potrebbero perdere una parte della loro atmosfera originaria a causa dell’irradiazione della stella centrale, in particolare i gas volatili come l’idrogeno e l’elio, in un processo noto come fotoevaporazione.

Tuttavia, questa spiegazione trascura l’influenza della migrazione planetaria. È stato stabilito da circa 40 anni che, in determinate condizioni, i pianeti possono spostarsi verso l’interno e l’esterno dei sistemi planetari nel corso del tempo. L’efficacia di questa migrazione e la misura in cui influenza lo sviluppo dei sistemi planetari influiscono sul suo contributo alla formazione della radius valley.

Nelle regioni ghiacciate dei loro luoghi di nascita, i sub-Nettuni ricevono poco calore dalla loro stella. Quando questi pianeti, presumibilmente ghiacciati, migrano più vicino alla stella, il ghiaccio si scongela, formando alla fine una spessa atmosfera di vapore acqueo. Questo processo si traduce in uno spostamento dei raggi dei pianeti verso valori più grandi.

Infatti, le osservazioni utilizzate per misurare i raggi planetari non sono in grado di distinguere se le dimensioni determinate sono dovute alla sola parte solida del pianeta o a un’ulteriore atmosfera densa. E allo stesso tempo, i pianeti rocciosi si “restringono” perdendo la loro atmosfera. Nel complesso, entrambi i meccanismi producono una mancanza di pianeti con dimensioni intorno ai 2 raggi terrestri.

Ma non è finita qui…

I risultati ottenuti dal team di Burn e colleghi derivano dai calcoli dei modelli fisici che tracciano la formazione dei pianeti e la loro successiva evoluzione. Essi comprendono anche i processi nei dischi di gas e polvere che circondano le giovani stelle, e che danno origine a nuovi pianeti. Questi modelli includono l’emergere di atmosfere, la miscelazione di gas diversi e la migrazione radiale.

Il gap del raggio è rappresentato come una linea nera, e la popolazione planetaria di corpi puri di silicato e ferro (verde), pianeti ricchi di acqua (blu) e giganti gassosi H/He (arancione) sono mostrati come rettangoli sfocati. Vengono mostrati esempi di schemi della struttura interna con indicatori per la miscelazione differente di gas e la migrazione. Credits: Burn et al. 2024

“Il punto centrale di questo studio sono state le proprietà dell’acqua alle pressioni e alle temperature che si verificano all’interno dei pianeti e delle loro atmosfere” ha spiegato Burn. Capire come si comporta l’acqua in un’ampia gamma di pressioni e temperature è fondamentale per le simulazioni. È notevole, ammettono gli scienziati, come le proprietà fisiche a livello molecolare influenzino i processi astronomici su larga scala, come la formazione delle atmosfere planetarie.

Tuttavia, questa scoperta è “solo” un passo avanti di molti che attendono di essere compiuti. Infatti, sebbene la distribuzione dimensionale simulata corrisponda strettamente a quella osservata, i dettagli presentano ancora alcune incongruenze. Ad esempio, nei calcoli troppi pianeti di ghiaccio finiscono troppo vicini alla stella centrale. Sarà compito di studi futuri, anche grazie al James Webb Space Telescope al futuro Extremely Large Telescope, aiutare gli scienziati a capirne di più.

Lo studio, pubblicato su Nature Astronomy, è reperibile qui.

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