Uno studio recente ha messo in dubbio una delle spiegazioni più accettate per il cambiamento orbitale osservato dopo l’impatto della missione DART nel 2022 sull’asteroide Dimorphos. Dopo il famoso accorciamento di circa 33 minuti nel periodo orbitale del sistema binario Didymos–Dimorphos, le osservazioni hanno rilevato un ulteriore calo di circa 30 secondi nelle settimane successive. Questo piccolo ma significativo cambiamento ha spinto i ricercatori a cercarne la causa.
L’ipotesi principale finora era il cosiddetto binary hardening: l’idea che i detriti espulsi dall’impatto potessero interagire con Dimorphos e venire espulsi dal sistema, portando via momento angolare e quindi stringendo l’orbita. Ma secondo Harrison Agrusa e Camille Chatenet, dell’Université Côte d’Azur, questa spiegazione non regge.
Attraverso simulazioni N‑body, i due ricercatori hanno mostrato che Dimorphos non ha abbastanza forza gravitazionale per espellere in modo efficiente i detriti. Al contrario, la maggior parte del materiale tende a ricadere nel sistema, contribuendo ad allungare – non accorciare – il periodo orbitale. Questo significa che un altro meccanismo deve essere responsabile della riduzione osservata.
Gli autori propongono una possibile alternativa: la ristrutturazione fisica di Dimorphos a seguito della sua rotazione alterata dall’impatto.
Il problema del binary hardening
L’ipotesi del binary hardening era stata formulata per spiegare l’anomalo accorciamento di 30 secondi nel periodo orbitale che è stato osservato nelle settimane successive all’impatto DART, oltre alla riduzione di circa 30 minuti già prevista. In tale scenario, i detriti espulsi da Dimorphos (in parte legati gravitazionalmente al sistema) potrebbero interagire con il sistema e, se successivamente espulsi, sottrarre momento angolare, “stringendo” l’orbita del sistema binario.
Agrusa e Chatenet hanno voluto testare la robustezza di questa spiegazione attraverso simulazioni con il codice REBOUND, modellando 10 000 particelle di materiale espulso con un’ampia varietà di velocità di eiezione e distribuzioni orbitali.
I risultati indicano che Dimorphos è un disperditore gravitazionale troppo debole: la sua velocità di fuga è modesta, e lo rende incapace di espellere con efficacia il materiale vincolato al sistema.
Più precisamente, gran parte del materiale legato ricade sul sistema (fenomeno noto come reaccretion). Dato che l’impatto DART è risultato quasi frontale, la maggior parte del materiale espulso è quindi destinato ad orbitare in modo progrado, ossia nella stessa direzione del moto orbitale binario. Quando questi materiali ricadono su Didymos o Dimorphos, trasferiscono momento angolare al sistema, provocando un aumento del periodo orbitale, ossia l’effetto opposto a quello osservato.

Di conseguenza, lo studio conclude che lo scattering gravitazionale del materiale espulso non può spiegare la riduzione netta del periodo orbitale. Al contrario, il meccanismo proposto porterebbe ad un allungamento orbitale, a meno che non intervenga un effetto contrapposto più forte.
L’ipotesi del reshaping rotazionale
Se il binary hardening è escluso come spiegazione, resta da identificare un meccanismo in grado di sovrastare la tendenza naturale del sistema a “stringersi” per i motivi spiegati finora. Gli autori suggeriscono che la deformazione di Dimorphos, indotta dalla rotazione post‑impatto, possa essere la candidata più promettente.
L’idea è che l’impatto DART abbia potenzialmente alterato il tasso di rotazione interna o la distribuzione di massa di Dimorphos, innescando un processo di ristrutturazione meccanica del suo corpo. Se la morfologia del satellite cambia, per esempio se si assottiglia localmente o si redistribuisce materiale, questo può alterare il momento d’inerzia. E generare variazioni nella dinamica orbitale che, in teoria, possono agire in senso riduttivo del periodo.
Questa spiegazione non è ancora pienamente quantificata. Servono modelli dettagliati che includano proprietà interne (resistenza delle rocce, struttura interna, rotazione) e che possano essere confrontati con i dati osservativi esistenti. Lo studio di Agrusa e Chatenet rimane al momento aperto. Non esclude che possano esserci altre ipotesi, e invita la comunità scientifica ad approfondire il fenomeno con simulazioni più realistiche e nuovi dati di osservazione.
Va anche ricordato che LICIACube, il cubesat italiano che ha documentato l’impatto DART e il pennacchio di detriti, ha già fornito immagini che suggeriscono una complessità maggiore negli effetti dell’impatto, andando oltre modelli semplificati. In particolare, la morfologia del pennacchio, l’evoluzione della nube di detriti e le strutture osservate nei primi minuti dopo l’impatto mostrano che i processi coinvolti sono più articolati di quanto molti modelli preverrebbero.
Solo l’integrazione fra dati osservativi, modelli di impatto ed evoluzione meccanica interna delle rocce potrà confermare (o scartare) definitivamente l’ipotesi del reshaping rotazionale come responsabile del calo orbitale residuo. Sicuramente, in questo giocherà un ruolo fondamentale la missione Hera dell’ESA, che raggiungerà il sistema binario Didymos-Dimorphos nel 2026.
Lo studio di Agrusa & Chatenet è stato accettato per la pubblicazione sulla rivista Astronomy & Astrophysics. Al momento è reperibile qui in versione pre-print.











