L’umanità ha impiegato secoli a mappare le caratteristiche della Terra, e questo processo viene ripetuto spesso, utilizzando strumenti sempre più avanzati. Combinando assieme i dati di mappature differenti, otteniamo una comprensione più ampia del nostro pianeta.
La stessa cosa si sta facendo all’esterno, nello spazio. Da quando, un secolo fa, Edwin Hubble ha confermato che la nostra galassia non era la sola nell’Universo, gli astronomi hanno iniziato a osservare e mappare le galassie vicine. Per farlo hanno utilizzato telescopi spaziali e terrestri, per accumulare giganteschi cataloghi di dati nelle lunghezze d’onda che vanno dalla radio alla luce ultravioletta.
Ora, il James Webb della NASA ha permesso di ottenere immagini nel vicino e medio infrarosso con la più alta risoluzione mai scattate di queste galassie vicine. Mostrano stelle, gas e polvere nel dettaglio, sono straordinarie dal punto di vista estetico, e sono ricchissime di scienza.
Nel frattempo, il Webb ha osservato dozzine di giovani quasar e galassie bambine nell’Universo primordiale, stelle nascenti e sistemi esoplanetari.
Tutto questo e molto altro è raccontato in questo nuovo approfondimento della rubrica “Cronache dal James Webb“.
Dall’Universo primordiale
Di recente il James Webb ha rivelato il buco nero più antico mai osservato, situato al centro della galassia GN-z11. Questo buco nero supermassiccio, con una massa milioni di volte superiore al Sole, è stato osservato quando l’Universo aveva solo il 3% della sua età attuale, ovvero 13.4 miliardi di anni fa.
Il buco nero sta consumando rapidamente il gas della galassia, generando attorno a sé un disco di accrescimento che emette intensa radiazione ultravioletta. La scoperta di un buco nero così accresciuto a soli 400 milioni di anni dopo il Big Bang sfida le attuali teorie sulla formazione dei buchi neri, suggerendo possibili meccanismi di crescita più rapidi di quanto precedentemente ipotizzato.
Utilizzando diverse indagini effettuate con il James Webb, tra cui COSMOS-Web, JADES, UNCOVER, CEERS e PRIMER, gli scienziati hanno analizzato 350 galassie compatte dell’Universo primordiale, caratterizzate da uno spostamento verso il rosso (redshift) maggiore di 6.
Di queste, 64 sembravano avere quasar, ovvero essere dotate di un buco nero supermassiccio attivo al loro centro. Così, i ricercatori hanno confrontato la luminosità e lo spostamento verso il rosso per determinare l’età e la massa dei buchi neri.
Dalle loro analisi sui dati di Webb si evince, come accaduto per il buco nero supermassiccio al centro di GN-z11 e per altri studiati da precedenti studi, questi primi buchi neri erano proporzionalmente più grandi rispetto alle loro galassie.
Inoltre, a partire dall’indagine CEERS (Cosmic Evolution Early Release Science Survey), i ricercatori della Columbia University hanno scoperto che le galassie nell’Universo primordiale sono spesso piatte e allungate, raramente sferiche. Circa il 50-80% delle galassie studiate sembrano essere “appiattite” in due dimensioni.
Le galassie distanti, per quanto ne sappiamo, meno massicce delle spirali ed ellittiche che vediamo nell’Universo vicino, potrebbero essere precursori di galassie più massicce. Noi ora le vediamo com’erano quasi all’alba del cosmo. Quindi è importante riuscire a comprendere la ragione di queste conformazioni, per ricostruire la storia dell’evoluzione delle galassie.
Una possibile spiegazione a queste forme più allungate è la presenza di filamenti di materia oscura nell’Universo primordiale che hanno influenzato la formazione galattica. Ulteriori studi, però, saranno necessari per approfondire questa tendenza.
Dalla Galassia, e oltre
Grazie alla sua altissima sensibilità nell’infrarosso e alla sua risoluzione senza precedenti, il James Webb ha dato un contributo unico e straordinario al progetto PHANGS (Physics at High Angular resolution in Nearby GalaxieS), caratterizzato da un catalogo già ricco di dati provenienti dal telescopio spaziale Hubble, dal Multi-Unit Spectroscopic Explorer (MUSE) del Very Large Telescope dell’ESO, e dal radiointerferometro Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA), comprendendo quindi osservazioni nella luce ultravioletta, visibile e radio.
I contributi di Webb nel vicino e medio infrarosso hanno fornito diversi nuovi pezzi del puzzle, e soprattutto, una vista unica su 19 galassie vicine. Janice Lee, scienziata del progetto PHANGS presso lo Space Telescope Science Institute di Baltimora, parlando delle nuove immagini ha spiegato: “Sono strabilianti anche per i ricercatori che hanno studiato queste stesse galassie per decenni. Bolle e filamenti vengono risolti fino alle scale più piccole mai osservate, e raccontano una storia sul ciclo di formazione stellare”.
Il Webb ha poi fotografato nell’infrarosso N79, una vasta regione di formazione stellare ricca di idrogeno molecolare nella Grande Nube di Magellano, galassia satellite della Via Lattea.
Regioni di formazione stellare come questa interessano gli astronomi perché la loro composizione chimica è simile a quella delle gigantesche regioni di formazione stellare osservate quando l’Universo aveva solo pochi miliardi di anni, e la formazione stellare era al suo apice.
Questo complesso stellare, più giovane del maggiormente famoso 30 Doradus, indica un’efficienza di formazione stellare doppia negli ultimi 500mila anni. Le regioni di formazione stellare nella nostra galassia, la Via Lattea, non producono stelle alla stessa velocità di N79, e hanno una composizione chimica diversa.
JWST, rivelando gas e polvere incandescenti nelle lunghezze d’onda del medio infrarosso, offre ora agli astronomi l’opportunità di confrontare e contrapporre le osservazioni della formazione stellare in N79 con le osservazioni profonde del telescopio di galassie distanti nell’Universo primordiale.
Nel frattempo, sempre Webb ha confermato che le teorie sulla formazione stellare costruite sulla base delle osservazioni nella Via Lattea sono valide anche in altre galassie, riuscendo con il suo strumento MIRI a risolvere singole stelle neonate nella galassia del Triangolo, a 2.7 milioni di anni luce di distanza.
L’osservazione di quelli che sono detti giovani oggetti stellari (YSO) è cruciale per comprendere la storia evolutiva delle galassie. MIRI ha rivelato 793 candidati YSO, all’interno di nubi molecolari giganti, fornendo importanti dettagli sulla formazione stellare nella galassia del Triangolo simile alla Via Lattea. Webb, con la sua risoluzione record, apre una nuova finestra per studiare le fasi iniziali della nascita delle stelle in galassie remote.
Il giovane sistema planetario Beta Pictoris, a 63 anni luce da noi, scoperto con il telescopio spaziale Hubble, presenta ora un nuovo mistero grazie a Webb. Oltre al disco di detriti esterno, sono stati scoperti un secondo disco inclinato e una struttura a “coda di gatto”, mai vista prima.
Le osservazioni nel medio infrarosso rivelano anche delle differenze di temperatura tra i dischi, suggerendo materiali diversi. La coda, ipotizzano gli scienziati, potrebbe derivare da una collisione avvenuta solo cento anni fa.
Infine, gli astronomi hanno utilizzato il James Webb per studiare 12 nane brune fredde. Due di loro, W1935 e W2220, sembravano quasi gemelle per composizione, luminosità e temperatura. Tuttavia, W1935 ha mostrato emissioni di metano, in contrasto con la caratteristica di assorbimento prevista osservata in W2220. Il team ipotizza che l’emissione di metano possa essere dovuta a processi che generano le aurore.
Questo fenomeno, simile alle aurore nei giganti gassosi del nostro Sistema Solare, è un mistero, dato che W1935 manca di una fonte esterna di calore. Tuttavia, la scoperta unica offre un’opportunità senza precedenti per comprendere processi aurorali in sistemi isolati come W1935.
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