Il 12 maggio 2022, durante una conferenza stampa dell’European Southern Observatory (ESO), è stata annunciata e mostrata la prima foto di Sagittarius A*, il buco nero supermassiccio al centro della nostra galassia. L’immagine è stata prodotta grazie al duro lavoro della Event Horizon Telescope (EHT) Collaboration, che ha sfruttato diversi radiotelescopi altamente sensibili sparsi su tutto il globo terrestre.
Sono solo sei gli italiani all’interno della EHT Collaboration, e tra questi c’è la Dottoressa Mariafelicia De Laurentis. Ex-professore di Astronomia e Astrofisica dell’Università di Napoli Federico II e ricercatrice INFN, è membro dell’EHT Consortium dove ricopre attualmente il ruolo di Deputy Project Scientist. E’ vice-responsabile dell’intero progetto EHT che si sta occupando di studiare i misteri dei buchi neri.
In quest’intervista la dtt.essa De Laurentis ci parla delle caratteristiche della collaborazione, dei telescopi e delle difficoltà nel produrre la prima immagine del “nostro” buco nero supermassiccio.
Quali caratteristiche di EHT lo rendono così indicato a osservare buchi neri?
EHT è uno strumento fondamentalmente nuovo, con il più alto potere risolutivo angolare che sia mai stato raggiunto in astronomia. Un livello di dettaglio tale da permetterci di leggere una pagina di giornale a New York comodamente da un caffè sul marciapiede di Napoli. Poiché i buchi neri non emettono luce, l’obiettivo è quello di visualizzare la loro “ombra” causata dalla deviazione della luce in condizioni di gravità estrema. Per vedere al centro di una galassia e arrivare quindi a visualizzare un buco nero dobbiamo andare ad alte frequenze dello spettro elettromagnetico.
Lo studio mediante radiotelescopi sopperisce all’osservazione ottica, resa difficoltosa dalle nubi di polveri e gas che circondano il centro della galassia e le vicinanze di questi imponenti oggetti. Poiché anche le onde radio rilevate dai singoli osservatori sono ostacolate da nubi di gas ionizzato, si rende necessaria una rete sub-millimetrica ottenuta grazie grazie alla tecnica nota come interferometria radio a lunga distanza (Very-Long-Baseline Interferometry, VLBI). Questa tecnica sincronizza con orologi atomici le strutture dei telescopi in tutto il mondo e sfrutta la rotazione del nostro pianeta per creare un enorme telescopio (più grande è il disco di un telescopio, maggiore è il contrasto dell’immagine) di dimensioni pari a quelle della Terra. Uno strumento in grado di osservare a una lunghezza d’onda di 1,3 mm (corrispondente a una frequenza di circa 230 GHz).
Quali sono state le maggiori difficoltà riscontrato nelle osservazioni con EHT?
Abbiamo dovuto affrontare sfide non facili. Lavorare all’immagine di M87* è stato più semplice. Anche se comunque difficile, rispetto a SgrA* è stata una passeggiata. Perché nonostante Sgr A* sia più vicino a noi, la nostra visuale del buco nero è oscurata da gas plasma e polvere, che disperdono le onde radio provenienti dalla regione attorno al buco nero. Noi siamo in una posizione di svantaggio perché siamo nella stessa galassia, posizionati su uno dei bracci della spirale. Tra noi e il suo centro esso c’è di tutto, c’è il cosiddetto mezzo interstellare che complica la situazione. Questo effetto di dispersione è molto meno pronunciato per M87.
Un’importante complicazione dei dati di Sgr A* è che la sorgente è variabile su tempi scala dei minuti, per cui mentre la osserviamo al telescopio, la sorgente cambia sotto i nostri occhi. Questo complica di molto l’analisi dei dati. La causa è legata al fatto che il gas intorno a Sgr A* impiega pochi minuti a completare un’orbita attorno a questo buco nero. Il buco nero al centro della galassia M87 invece è molto più grande.
Il gas, che si muove alla stessa velocità (prossima a quella della luce) attorno a entrambi i buchi neri, impiega giorni o addirittura settimane per orbitare intorno ad esso. M87* era dunque un target più stabile: quasi tutte le immagini, catturate nel corso della stessa settimana, avevano il medesimo aspetto.
E in particolare in quelle di Sagittarius A*?
Non è accaduto lo stesso per Sgr A*. I dati raccolti durante una notte di osservazione, poi utilizzati per elaborare l’immagine finale, includono un intervallo di tempo dove la sorgente è cambiata potenzialmente fino a un centinaio di volte. Per far fronte a questa variabilità e capirne meglio l’aspetto fisico, abbiamo dovuto sviluppare nuovi strumenti sofisticati, che risolvessero dei problemi che per molti versi erano nuovi nell’analisi di dati radioastronomici. Così abbiamo prodotto milioni di immagini con diverse combinazioni di parametri per i vari algoritmi di imaging, usando grandi infrastrutture di calcolo.
Questo spiega non solo il tempo impiegato per la pubblicazione, 5 anni dopo l’acquisizione dei dati, ma anche perché la sorgente appare meno simmetrica e circolare rispetto ad M87. Questa apparenza quasi mossa e più sfocata rispetto alla foto di M87 è dovuta al fatto che l’immagine del buco nero pubblicata è una media delle tantissime e diverse immagini prodotte.
Quanti telescopi sono stati utilizzati per vedere il “nostro” BH? Quanti compongono EHT?
I telescopi coinvolti nell’Event Horizon Telescope nell’aprile 2017, quando sono state realizzate le osservazioni, sono:
- l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA) e l’Atacama Pathfinder Experiment (APEX) in Cile;
- l’IRAM 30-meter Telescope in Spagna;
- il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT) e il Submillimeter Array (SMA) alle Hawaiʻi;
- il Large Millimeter Telescope Alfonso Serrano (LMT) in Messico;
- lo UArizona Submillimeter Telescope (SMT) in Arizona;
- il South Pole Telescope (SPT) in Antartide.
Da allora, EHT ha aggiunto alla sua rete il Greenland Telescope (GLT) in Groenlandia, il NOrthern Extended Millimeter Array (NOEMA) in Francia e lo UArizona 12-meter Telescope su Kitt Peak, Arizona.
Ogni telescopio ha prodotto enormi quantità di dati (circa 350 terabyte al giorno), archiviati su dischi rigidi a elio ad alte prestazioni. Si sono poi trasferiti i dati a supercomputer altamente specializzati (correlatori) al Max Planck Institute for Radio Astronomy e al Massachusetts Institute of Technology MIT Haystack Observatory, per essere combinati. Infine, gli esperti li hanno faticosamente convertiti in un’immagine utilizzando nuovi strumenti computazionali sviluppati dalla collaborazione.
Com’era organizzato il team EHT Collaboration durante gli anni di lavoro che hanno preceduto la scoperta? Quanto è presente l’Italia nella collaborazione EHT?
Abbiamo un’organizzazione ben definita, dove ognuno di noi ha dei ruoli e compiti precisi. C’è un Management (nel quale c’è il Project Director, Operations Manager, Project Scientist, Deputy Project Scientist), uno Science Council, un Junior Science council. Poi ci sono gli operations group and science working group. Infine c’è un Board che rappresenta le università/istituti coinvolti.
Per quanto riguarda il lavoro specifico su SgrA*, come viene fatto per ogni progetto, ci siamo divisi in 6 piccoli sottogruppi per lavorare alle diverse fasi del processo sotto il coordinamento di 12 esperti del campo. Io insieme alla collega americana Lia Medeiros abbiamo coordinato il lavoro sui test di gravità, selezionando un piccolo gruppo di scrittura composto da 7 ulteriori esperti.
L’Italia ha contribuito solo scientificamente attraverso l’Università di Napoli Federico II (UNINA), l’Università di Cagliaria (UNICA), l’istituto nazionale di fisica nucleare (INFN) e l’Istituto nazionale di astrofisica (INAF).
Con che risoluzione abbiamo visto Sagittarius A*?
Abbiamo iniziato ad ampliare la rete di radiotelescopi. Questo ci consentirà di avere una migliore risoluzione e quindi vedere con maggiore precisione le sorgenti. Oltre ad utilizzare radio telescopi già esistenti, inizieremo a costruirne di nuovi. Inoltre stiamo anche pensando ad una rete di radiotelescopi formata da satelliti in orbita attorno alla Terra, capaci di restituire immagini cinque volte più nitide.
Sono in corso di analisi le osservazioni del 2018 e 2021, e nel frattempo si stanno conducendo nuove osservazioni nel 2022 in aggiunta al set di dati. E stiamo pianificando nuove osservazioni nei prossimi anni. Le nostre capacità di osservazione sono notevolmente migliorate tra il 2017 e oggi, quindi abbiamo grandi aspettative per ciò che troveremo in questi dati.
Quali saranno i prossimi passi del suo studio con EHT?
Sgr A* e M87* rimangono i nostri obiettivi più importanti. Oltre a studiarne i campi magnetici circostanti, uno dei prossimi grandi obiettivi scientifici è quello di comprendere come essi cambiano ed evolvono nel tempo. Le ripetute osservazioni di Sgr A* e M87* sono fondamentali per dimostrare che le loro caratteristiche primarie rimangono costanti nel tempo. Come previsto dalla relatività generale, del resto. Le differenze osservate nel tempo possono fornire indizi importanti sulla natura dei dischi di accrescimento e dei getti relativistici.
Prevediamo anche di produrre le prime immagini della magnetosfera che circonda Sgr A* da questi dati. Stiamo anche cercando pulsar in orbita attorno a Sgr A* utilizzando dati EHT. I dati EHT sono particolarmente sensibili alle stelle di neutroni che pulsano rapidamente nel Centro Galattico a causa della sua elevata sensibilità al millimetro lunghezze d’onda. Una pulsar in un’orbita di breve periodo fornirebbe alcune delle prove più forti della relatività.
Per approfondire:
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