I primi buchi neri supermassicci conosciuti al centro delle galassie, che noi osserviamo entro il primo miliardo di anni dell’Universo, hanno masse sorprendentemente grandi. Troppo, per essere così giovani: come si sono accresciuti così tanto in poche centinaia di milioni di anni?
Questa domanda attualmente non ha risposta. Sono state avanzate delle ipotesi, alcune più probabili di altre. Tutte devono comunque tener conto del fatto che la crescita di un buco nero non può essere arbitrariamente veloce: la materia che attrae forma un “disco di accrescimento” vorticoso, caldo e luminoso attorno, generando un quasar, che è tra gli oggetti astronomici più luminosi dell’intero cosmo. Ma questa luminosità limita la quantità di materia che può cadere sul buco nero: la luce esercita una pressione che può impedire la caduta di ulteriore materia. Allora come possono esistere buchi neri molto giovani con masse pari a 10 miliardi di masse solari?
Utilizzando il telescopio spaziale James Webb, gli astronomi hanno esaminato uno dei buchi neri più distanti conosciuti nell’Universo. I risultati indicano che sembra “nutrirsi” più o meno nello stesso modo dei suoi parenti più recenti, fornendo nuovi indizi su come avviene la crescita di questi oggetti ai primordi del cosmo. E soprattutto, escludendo che una risposta alle domande precedenti sia semplicemente che i meccanismi di accrescimento fossero diversi da quelli che vediamo nei buchi neri supermassicci meno antichi.
Osservando uno dei primi buchi neri: uguale a tanti altri
Per misurare gli spettri dei buchi neri supermassicci lontani, lo strumento MIRI (Mid InfraRed Instrument) del James Webb è 4000 volte più sensibile di qualsiasi strumento precedente. Nel 2019 il consorzio europeo MIRI ha deciso di utilizzare parte del tempo dedicato alle osservazioni per testare le capacità dello strumento per osservare quello che allora era il quasar più distante conosciuto, denominato J1120+0641.
Le osservazioni sono state effettuate nel gennaio 2023, durante il primo ciclo di osservazioni di Webb (quando ormai J1120+0641 aveva perso il primato di quasar più distante), e sono durate circa due ore e mezza. Costituiscono il primo studio nel medio infrarosso di un quasar nel periodo dell’alba cosmica, appena 770 milioni di anni dopo il Big Bang.
A guidarne l’analisi è stata la ricercatrice Sarah Bosman del Max Planck Institute for Astronomy (MPIA), membro del consorzio europeo MIRI. Le osservazioni consistono in una serie di spettri del quasar, che ci danno una serie di informazioni.
- La forma complessiva dello spettro, detta continuum, codifica le proprietà di un grande toro di polvere che circonda il disco di accrescimento dei quasar. Questo toro è ciò che “alimenta” il buco nero, e per J1120+0641 sembra avere le stesse caratteristiche delle sue controparti più moderne.
- La parte dello spettro con lunghezze d’onda più corte, dominata dalle emissioni provenienti dal disco di accrescimento stesso, mostra che per noi osservatori distanti, la luce del quasar non è attenuata da polvere più del normale.
- La regione delle lunghezze d’onda più larghe invece, dove grumi di gas orbitano attorno al buco nero a velocità prossime a quella della luce, sembra ancora una volta assolutamente normale.
Per quasi tutte le proprietà che si possono dedurre dallo spettro, J1120+0641 non è diverso dai quasar di epoche successive. L’unica differenza è una temperatura della polvere leggermente più alta, circa un centinaio di Kelvin in più rispetto ai 1300 K riscontrati per la polvere più calda nei quasar meno distanti.
Le implicazioni
“Nel complesso, le nuove osservazioni non fanno altro che aumentare il mistero: i primi quasar erano sorprendentemente normali” ha affermato Bosman. “Non importa in quale lunghezza d’onda li osserviamo, i quasar sono quasi identici in tutte le epoche dell’Universo”.
Quindi non solo i buchi neri supermassicci, ma anche i loro meccanismi di crescita e “alimentazione” erano apparentemente già maturi in quel periodo, quando l’Universo aveva solo il 5% della sua età attuale. Ciò che i risultati implicano è:
- Non è la crescita rapida dei buchi neri primordiali la risposta al mistero.
- Anche la soluzione secondo cui semplicemente stiamo sopravvalutando le masse dei buchi neri a causa della polvere aggiuntiva non è possibile.
Escludendo queste ipotesi, i risultati comunque supportano fortemente l’idea che i buchi neri supermassicci abbiano avuto masse considerevoli fin dall’inizio, ovvero che siano nati da “semi” di grandi dimensioni. I buchi neri supermassicci primordiali infatti non si sono formati dai resti delle prime stelle, ma sono comunque diventati massicci molto velocemente. Devono essersi formati presto e con masse iniziali di almeno centomila masse solari, possibilmente attraverso il collasso di massicce nubi di gas.