Il 2 marzo 2004 esattamente alle 08:17 italiane, veniva lanciata dallo spazioporto europeo di Kourou con un Ariane V la missione Rosetta dell’Agenzia Spaziale Europea.
Rosetta fu una missione particolarmente ambiziosa, con l’obbiettivo di studiare la cometa periodica 67P/Churyumov-Gerasimenko, dopo essere entrata in orbita attorno a essa. Includeva un lander, chiamato Philae, che ha effettuato il primo atterraggio controllato della storia (e finora l’unico) su una cometa.
Rosetta ha viaggiato per oltre dieci anni, prima di raggiungere la sua destinazione il 6 agosto 2014. In due anni di studi intorno alla cometa ha fornito preziose informazioni non solo su questi corpi celesti, ma anche sulla formazione del Sistema Solare e sulle ipotesi riguardanti l’origine dell’acqua sulla Terra. Ma soprattutto, è stata un enorme orgoglio europeo.
Per questo motivo, abbiamo pensato di farci raccontare la sua storia, e soprattutto le sfide che sono state affrontate nel progettarla e nel gestirla, direttamente dal capo delle operazioni spaziali della missione: il dottor Paolo Ferri, fisico teorico che per oltre 37 anni ha lavorato al centro di controllo dell’ESA a Darmstadt, in Germania.
Rosetta è stata una missione storica dell’ESA. Come è nata l’idea di portare una sonda europea in orbita attorno a una cometa per poi posarci sopra anche un piccolo lander?
L’idea di questo tipo di missione è nata dalla comunità scientifica, prima ancora della partenza della sonda europea Giotto nel luglio dell’85, che nell’86 ha fatto il primo sorvolo di una cometa. Era l’idea di una missione che facesse il passo successivo: non solo un sorvolo, quindi un veloce passaggio ravvicinato come quello eseguito dalla Giotto, ma un rendez-vous con una cometa per raggiungerla, restarci in orbita e scenderci sopra.
Inizialmente, l’idea era di fare una missione insieme alla NASA, che non fosse solo di rendez-vous e di atterraggio, ma anche di sample return, ovvero che consistesse nell’atterrare, raccogliere campioni e riportarli a Terra. Chiaramente, sarebbe stato davvero troppo ambizioso per quei tempi, e infatti il sample return da una cometa ancora oggi non è mai stato fatto. Anche scientificamente era molto più sensato portare gli strumenti direttamente sulla cometa, piuttosto che riportare un pezzettino di campione qui.
Quindi per vari motivi negli anni è stata abbandonata l’idea. Nel frattempo, la NASA si è ritirata dalla missione congiunta con l’ESA, ed ha solo collaborato nel fornire due degli strumenti a bordo della sonda e il supporto delle antenne di Terra. Nel 1993 poi, la missione è stata approvata nella forma in cui è stata eseguita, solo che a quel tempo ancora si doveva decidere quale cometa raggiungere.
Perché proprio 67P/Churyumov-Gerasimenko?
Questa è una storia interessante, perché in realtà non è stata scelta questa cometa: ce la siamo trovata praticamente come ultima spiaggia, tra vari candidati.
Infatti, quando a metà degli anni ‘90 la missione è stata definita in modo concreto ed è cominciata l’implementazione e anch’io ho iniziato a lavorarci, è stata scelta come target la cometa 46P/Wirtanen. L’intera missione, perciò, è stata progettata specificatamente per quella cometa, con quelle dimensioni, quella distanza minima e massima dalla Terra e dal Sole, la traiettoria, eccetera.
La data di lancio era il 13 gennaio 2003, noi eravamo pronti. Poche settimane prima, l’11 dicembre 2002 quindi cinque settimane prima del lancio, è esploso un Ariane V che era quasi identico a quello che avrebbe dovuto portare Rosetta e che era già pronto a Kourou, così come era pronta la sonda, già riempita di propellente.
L’ESA e Arianespace hanno cercato di capire cosa fosse successo, ma in così poche settimane non era possibile stabilire il problema dell’Ariane V e capirlo bene. Quindi all’inizio di gennaio, con un lancio previsto per il 13 gennaio, il Direttore Generale dell’ESA ha deciso che non si poteva rischiare una missione così importante e lanciare. Perciò hanno cancellato il lancio.
Cancellando il lancio, abbiamo perso l’appuntamento con la cometa. La dirigenza ESA era in realtà rilassata, sapeva che avevamo studiato una missione inizialmente per una generica cometa, e così ci ha chiesto di trovarne un’altra. Ma non è stato così facile, perché di comete simili con traiettorie della famiglia di Giove ce ne sono sì tante, ma la sonda era stata costruita appositamente per Wirtanen. Anche il lander era stato costruito per quella. Non potevamo deviare tanto da fattori come le dimensioni, la gravità, il grado d’attività, le distanze dalla Terra e dal Sole.
Quindi al centro di controllo per tre-quattro mesi c’è stata un’attività frenetica. Abbiamo studiato in dettaglio tutti i candidati alternativi che fino ad allora avevamo tenuto nascosti in un cassetto, e li abbiamo dovuti scartare uno dopo l’altro, perché non erano più compatibili con la sonda che avevamo costruito. Finché ne è rimasto solo uno, e questo era 67P/Churyumov-Gerasimenko.
Non era esattamente lo stesso, perché era un po’ più grande di 46P/Wirtanen, quindi il lander è stato modificato un po’ per riuscire ad attutire l’urto con quella gravità. Le distanze dal Sole massime erano praticamente le stesse, le minime no, per cui poco dopo il lancio ci siamo avvicinati parecchio al Sole, una quindicina di milioni di chilometri in più di quello che avevamo previsto, e questo ci ha dato dei bei problemi. Inoltre il viaggio è durato un anno in più, per vari motivi. Alla fine però ce l’abbiamo fatta, e il 2 marzo dell’anno successivo siamo partiti.
Per il lancio è stato scelto un Ariane V europeo. Quali sono stati i vantaggi e le sfide di utilizzare questo razzo?
L’Ariane V all’epoca non era un razzo ideale per le missioni interplanetarie, per vari motivi. L’ideale sarebbe infatti fare un profilo di missione piuttosto complesso sfruttando lo stadio superiore, per dare due spinte, che allora non era ancora stato fatto. Nel caso di Rosetta, è stato modificato per quello proprio per la prima volta.
Poi negli anni si è evoluto, e l’abbiamo usato anche in altri casi, come per Bepi Colombo o per JUICE. Ma quella era la prima volta che il secondo stadio veniva modificato per potere essere acceso in ritardo. Quindi non nel momento in cui si staccava dal primo stadio, ma dopo aver fatto un giro attorno alla Terra, una manovra che chiamavamo delayed ignition: per poter dare la spinta per entrare in velocità di fuga e lasciare la Terra nel punto ideale dell’orbita, e non semplicemente quando era finito il lavoro del primo stadio.
Hanno dovuto fare delle modifiche quindi, ma per il resto era un razzo molto potente, quindi aveva tutte le caratteristiche che ci servivano.
Quali sono state le sfide che si ricorda più impegnative durante lo sviluppo della missione?
Rosetta è stata per noi, e anche per l’industria europea, la prima vera missione interplanetaria. L’Europa fino ad allora aveva fatto due missioni che si erano allontanate dalla Terra: una era Giotto, che però aveva eseguito un’orbita eliocentrica molto vicino alla Terra, l’abbiamo seguita con un’antenna da 15 metri… L’altra missione era Ulysses, che invece era una vera missione interplanetaria, però l’abbiamo fatta con l’infrastruttura della NASA, quindi abbiamo mandato il nostro team a lavorare direttamente al JPL.
Noi quando abbiamo iniziato negli anni ‘90 a prepararci per Rosetta non avevamo niente, per una missione interplanetaria. Non avevamo sistemi di controllo, algoritmi per la dinamica del volo, antenne, esperienza. Nessuno di noi ne aveva idea, tant’è che io e un collega siamo stati 10 giorni al JPL per intervistare gli esperti di allora e chiedergli “come si fanno le missioni interplanetarie?”.
Non avevamo nessuna esperienza. Abbiamo veramente cominciato da zero. Abbiamo sviluppato tutte queste infrastrutture con Rosetta, e le abbiamo poi ovviamente utilizzate per le missione successive. Abbiamo fatto esperienza con Rosetta di cose che allora erano veramente pionieristiche per noi, mentre oggi i ragazzi dell’ESOC le fanno con gli occhi chiusi.
Per dire, il sorvolo di un pianeta per effettuare un assist gravitazionale: avevamo fatto una volta un sorvolo della Terra, con Giotto, ma con Rosetta abbiamo dovuto fare il sorvolo di Marte e tre sorvoli con la Terra. Oggi ne facciamo molti di sorvoli, (nel 2021 Bepi Colombo e Solar Orbiter hanno sorvolato Venere a distanza di 36 ore l’uno dall’altro) e li facciamo come se fossero operazioni normali. Per Rosetta, invece, era tutto la prima volta.
Che fine ha fatto la sonda Rosetta terminata la sua missione? E il lander Philae?
Il lander lo sappiamo, perché per fortuna esattamente quattro settimane prima dell’atterraggio ed esattamente al penultimo tentativo siamo riusciti a fotografarlo. Dico “per fortuna” ed è sbagliato, perché c’è stato tutto un programma di ricerca, però veramente ci è andata bene, perché era il penultimo tentativo e l’abbiamo beccato al margine di una foto, e l’ultimo tentativo di fotografarlo è poi fallito.
Quindi sappiamo dov’è, o dov’era perlomeno (ma è ancora lì di sicuro). E questo è molto importante, perché tutte le misure locali ora gli scienziati sanno dove e in che condizioni sono state effettuate.
La sonda madre invece non sappiamo di preciso dove sia e in che condizioni si trovi. Abbiamo deciso di farla atterrare sulla cometa, ma non era stata progettata per atterrare: ad esempio, nell’istante in cui toccava il suolo non poteva più puntare l’antenna verso la Terra né i pannelli solari verso il Sole, facendoci perdere la garanzia di avere il controllo della sonda.
Perciò l’abbiamo programmata per spegnersi. Appena ha toccato la cometa, Rosetta si è spenta per sempre e non abbiamo più ricevuto il suo segnale. Eventuali danni comunque saranno stati minimi, perché ci siamo avvicinati a meno di 1 m/s. Ma non sappiamo se è rimbalzata, se si è inclinata, se si è rotta. Bisognerebbe mandare qualcosa a fotografarla…
Qual è, per lei, il ricordo più emozionante legato a questa missione?
Decisamente è stato il risveglio dall’ibernazione. Rosetta è stata la prima missione che ha fatto l’ibernazione prima di arrivare al suo obbiettivo principale. Noi avevamo già fatto l’ibernazione con Giotto, ma è avvenuto dopo la conclusione della missione primaria. Rosetta, invece, doveva ibernarsi per due anni e mezzo prima di aver cominciato la missione vera e propria.
Io ho passato anni nella preparazione della missione a lottare contro questo concetto: per me era una follia, e anche per molti altri. Era un rischio troppo alto. Ma alla fine l’ho dovuto accettare: questa missione era fattibile solo con l’ibernazione.
Io non avevo ancora abbandonato le speranze, perché quando si parte ci si tengono molti margini, per esempio di potenza dei pannelli solari, oppure margini di errore. Siamo partiti nel marzo 2004 e siamo arrivati a spegnere la sonda nel giugno 2011. La mia speranza era che se fossimo arrivati a giugno 2011 con pochi guasti e molti margini, magari saremmo riusciti a tenerla accesa. Invece, quando siamo arrivati a quel punto, anche lì ho dovuto accettare che l’ibernazione era inevitabile.
Avremmo potuto tenerla accesa, ma i rischi sarebbero stati molto superiori, quindi l’abbiamo spenta. Due anni e mezzo senza il segnale della sonda, per uno che fa il mio lavoro, è una cosa insopportabile… È stato veramente tremendo accettare questa cosa. Comunque l’abbiamo fatto. E non avevamo alternative, sono convinto che i rischi sarebbero stati veramente molto elevati.
E quindi, il momento più emozionante è stato sicuramente quando ci siamo messi lì il 20 gennaio 2014 ad aspettare il segnale. Avevamo calcolato una finestra di un’ora. La sonda doveva automaticamente eseguire una sequenza molto complessa di attività (avevamo settato quattro sveglie a bordo per essere sicuri…). Per questo non era chiaro quando esattamente avremmo ricevuto il segnale.
Tutti i circa 50 minuti che la sonda ha impiegato li abbiamo trascorsi ad aspettare. Sono stati eterni ed eravamo molto preoccupati. Poi, finalmente, è arrivato quel momento, l’arrivo del segnale! È stato veramente un momento emozionante, perché lì era questione di tutto o niente. La missione continuava se arrivava il segnale, se non arrivava, non c’era nessuna garanzia.
Certo, avevamo preparato delle procedure di emergenza per cercare di stimolare quel segnale nel caso non fosse arrivato. Ma la nostra esperienza ci dice che comandare alla cieca senza sapere cosa è successo è comunque rischioso, un terno al lotto farlo con una sonda che era da due anni e mezzo che non si sapeva cosa stesse facendo.
Quindi quando è arrivato questo segnale è stato veramente una liberazione. Il momento sicuramente più emozionante, molto di più dell’atterraggio.
E nel momento in cui è arrivato il segnale, subito dopo è andato tutto liscio?
I problemi ci sono stati negli anni precedenti, ma subito dopo quel segnale, no. In effetti riceverlo era già una conferma che l’80% dei sistemi di bordo funzionavano a dovere. Eravamo ancora lontanissimi dal Sole, se ricordo bene 650 milioni di chilometri, e quindi abbiamo acceso molto gradualmente tutti i sistemi e poi abbiamo provato piano piano uno ad uno anche gli strumenti.
Abbiamo dovuto attendere ancora due mesi per avere abbastanza potenza elettrica per accendere la camera di bordo e fare una foto della cometa, il 20 marzo 2014.
Dopo quel segnale, però, iniziava la fase più delicata: da gennaio in poi si entrava in una fase veramente nuova, che nessuno aveva mai affrontato prima, quella di avvicinarsi a una cometa, orbitarci attorno e costruire un modello del nucleo e delle forze che generava sulla nostra sonda. Insomma erano tutte attività nuove, quindi non le chiamerei problemi, ma piuttosto sfide.
Quando crede che potremmo vedere una nuova missione verso le comete, e perché sarebbe importante organizzarne un’altra? Di che tipologia dovrebbe essere?
Devo ammettere che rispetto alle mie aspettative e alle mie speranze, in questi ultimi anni le comete sono passate un po’ in secondo piano. Dopo questo grande successo storico di Rosetta, in generale ci sono poche missioni in ballo verso le comete.
L’ESA ne sta preparando una molto interessante, di tipo completamente diverso. È una missione di sorvolo, ma di una cometa che ancora non sappiamo quale sarà, possibilmente addirittura una cometa interstellare o comunque una cometa di quelle a lungo periodo.
L’idea è di lanciare questa sonda, chiamata Comet Interceptor, insieme ad Ariel, missione ESA prevista per la fine di questo decennio, entro il 2029. E poi di parcheggiarla nel punto L2, dove rimarrà ad aspettare. Quando verrà scoperta una di queste comete interessanti, che ovviamente arriva ad altissima energia e quindi si potrà fare solo un sorvolo, si dirigerà la sonda verso quella particolare cometa. Si tratta perciò di una missione di sorvolo, e molto breve, ma anche piuttosto interessante, perché andrà a vedere comete di un tipo completamente diverso da quelle che abbiamo osservato finora.
Anche la NASA aveva in ballo una missione dedicata alle comete, che però ha perso nelle fasi finali contro Dragonfly, missione verso Titano. Era un progetto che mi toccava molto da vicino, perché volevano fare un sample return proprio da 67P/Churyumov-Gerasimenko, quindi sarebbero andati fino a 67P/Churyumov-Gerasimenko ovviamente sfruttando tutto il lavoro che abbiamo fatto noi di caratterizzazione, per studiarlo e riportare indietro dei campioni. Questo ovviamente avrebbe risposto alla domanda precedente, sul dove si trova ora Rosetta. Purtroppo però la missione non è ancora stata approvata e per il momento non so se verrà ripresentata.
Riguardo a che tipo di missione avrebbe senso fare, io a dire la verità più che fare un sample return da una cometa già molto bene conosciuta come 67P/Churyumov-Gerasimenko, da un punto di vista scientifico penso che avrebbe molto più senso fare dei rendez-vous con altre comete simili, magari della famiglia di Giove come 67P/Churyumov-Gerasimenko, per caratterizzare un po’ questa famiglia di comete e poter fare dei paragoni. In fondo, ne abbiamo studiata solo una veramente a fondo. Potremmo vedere se è una cosa normale tutto quello che abbiamo visto, o se sono caratteristiche particolari di quella tipologia.
Secondo me, questa sarebbe la cosa più sensata da fare, più che un sample return. Il sorvolo di altre comete poi, tipo quelle interstellari, sarebbe fantastico. Quindi direi che quelle potrebbero essere le direzioni. Al momento, l’attenzione è andata un po’ più verso gli asteroidi. Però è così nello spazio, ogni settore della scienza spaziale vorrebbe avere sempre la prossima missione pronta. Ci vuole un po’ di pazienza.
Ringraziamo il dottor Ferri per averci raccontato la missione Rosetta dal suo punto di vista, e vi segnaliamo il suo libro “Il cacciatore di comete”, perfettamente collegato a questo argomento.