Francesco Sauro è un geologo e speleologo italiano, Presidente dell’Associazione di Esplorazioni Geografiche La Venta e Ricercatore Scientifico presso Miles Beyond. Nella sua carriera ha guidato più di trenta spedizioni in grotte e canyon in varie parti del mondo, ricevendo il premio Rolex Award for Enterprise per la scoperta di antiche grotte nelle montagne tabulari del Venezuela.
Oltre alla sua attività di esplorazione, il dott. Sauro si dedica allo studio dei sistemi carsici italiani ed ha tenuto il corso di Geologia Planetaria all’Università di Bologna. È inoltre consulente dell’Agenzia Spaziale Europea per l’addestramento degli astronauti per missioni di esplorazione planetaria, ricoprendo il ruolo di Technical Director nei programmi CAVES & PANGEA.
Riconosciuto come uno dei 20 giovani emergenti più influenti al mondo dalla rivista americana Times nel 2016, ha partecipato a vari eventi e programmi televisivi e le sue scoperte sono state presentate in diversi media internazionali. Nell’ottobre 2021 è uscito il suo saggio “Il continente buio” edito da Il Saggiatore, un racconto intimo che accompagna nelle viscere della terra.
Abbiamo posto alcune domande al dott. Sauro sulle sue esplorazioni e su come immagina il futuro dell’uomo nello spazio. Questa intervista fa parte della rubrica “Vivere nello spazio” di Astrospace.it ideata e gestita dall’Architetto Francesco Romio.
Come è iniziata l’esplorazione di quel luogo inesplorato che nel suo libro chiama il “continente buio”?
Noi, come esseri umani, siamo creature che vivono sulla superficie di un pianeta. La superficie, in realtà, è solo uno dei luoghi del pianeta, che ha anche un sottosuolo, un’atmosfera e così via. E proprio perché viviamo in superficie, non abbiamo la percezione di cosa sta sotto di noi.
Di fatto, l’esplorazione del mondo sotterraneo (anche terrestre) è cominciata non più di due secoli fa, in modo scientifico. Quindi non c’è da stupirsi se quando guardiamo altri pianeti, come la Luna e Marte, abbiamo la stessa percezione: non ci rendiamo conto che c’è un “sotto” la superficie, un sotterraneo, e molto spesso anche a livello scientifico questo non viene considerato. Cioè si pensa solo al fatto che ci sono rocce, poi il mantello e così via, ma in realtà c’è tutto un mondo di porosità, di cavità che è estremamente importante.
Noi per primi quindi, come uomini, ci siamo accorti tardi dell’esistenza del mondo sotterraneo sul nostro pianeta. Perciò solo adesso possiamo guardare verso un altro pianeta con occhi diversi, possiamo cominciare a farlo.
Lei ha parlato dell’esperienza recente di esplorazione del “continente buio”. Quali sono stati i suoi riferimenti? La letteratura, storie ascoltate da altri speleologi, figure particolarmente importanti nella sua vita che l’hanno guidata, che le hanno aperto le porte a questo “continente”?
Allora, c’è innanzitutto un aspetto immaginario, quello che si lega per esempio a “Viaggio al centro della Terra” di Verne, un libro che nella mia infanzia è stato molto importante. Però è comunque un libro immaginario, cioè nessuno ha mai vissuto veramente quelle esperienze, e soprattutto sono esperienze che appaiono impossibili.
Invece dall’altra parte c’erano i libri, per esempio le storie delle esplorazione degli anni ’30, ’40 e ’50 dei primi esploratori del mondo sotterraneo, che raccontavano di un mondo che quasi sembra fantastico, non sembra reale, non è quasi accettabile dall’uomo che esistano caverne gigantesche, cristalli giganti sottoterra e dentro i vulcani… Per me è stato un po’ quello il connubio tra la fantasia, l’immaginazione è la realtà dell’esploratore che negli anni ’40-’50 ha cominciato a esplorare questo mondo, che era totalmente sconosciuto. Da lì capisci che c’è ancora tantissimo da scoprire. Che non è solo un sogno, un’immaginazione, ma è qualcosa di reale, che dobbiamo ancora esplorare.
Poi, io ho conosciuto degli altri speleologi, ho avuto la fortuna di vivere in un posto pieno di grotte e quindi di fare esperienza e provare sulla mia pelle questa sensazione, quella di trovare un ingresso di una grotta, in cui uno può immaginare cosa c’è dentro, ma a volte la realtà è molto superiore rispetto a quello che può essere la nostra immaginazione, si possono trovare cose che sono del tutto inaspettate.
Per fare un esempio, fino a 50-70 anni fa sarebbe stato impensabile dire che nel sottosuolo si concentra il 30-40% della biodiversità terrestre. Eppure adesso ci sono centinaia di migliaia di specie di vertebrati endemici che vivono nei sotterranei. Sono tutte cose che sono successe nel corso di pochi decenni. È come se non avessimo mai guardato sotto la superficie del mare, e ad un certo punto, solo 50 anni fa, avessimo iniziato a guardarci dentro.
Prima ha parlato di questa relazione fra la fantasia e l’immaginario rispetto alla realtà. Mi viene in mente il caso delle Grotte di Naica, dove la realtà ha davvero superato l’immaginazione. Ci può parlare di questa sua esperienza, al limite fra la fantasia e la realtà, e (se ci sono state) quali sono state per lei le spedizioni più importanti della sua carriera, fino ad adesso?
Sì, ci sono degli ambienti, come la miniera di Naica o le grotte del Venezuela, che hanno davvero qualcosa di “alieno”, ma nel senso che sono talmente diversi da tutto quello che noi conosciamo sulla superficie della Terra che diventa quasi un’esplorazione “extraterrestre”.
Naica ne è un esempio, con cristalli giganteschi fino a 13 metri di lunghezza, ma anche le antichissime grotte dei tepui venezuelani, che trascendono un po’ il concetto di tempo “umano”, perché si parla di 50-70 milioni di anni; qui si trova una vita microbiologica che si è sviluppata totalmente al buio, nell’oscurità.
Lì, si apre un mondo per lo scienziato, ma anche per gli altri pianeti, perché se questo succede sulla Terra, perché non potrebbe succedere anche su Marte o altrove? O addirittura su altri sistemi planetari! Alla fine, abbiamo compreso che non è detto che la vita debba essere per forza sopra la superficie. Quindi, l’immaginazione a volte può anticipare la realtà, come nel caso di Verne, ma molto spesso la nostra realtà è limitata alla nostra percezione, mentre la natura va molto oltre.
In questo senso, non abbiamo nessuna percezione di cosa ci possa essere sotto la superficie della Luna o di Marte. Non sappiamo assolutamente niente. Quello che pensiamo si basa sulle analisi geologiche degli ingressi delle grotte, sempre se somigliano a quelli terrestri, come ad esempio succede nel caso dei tunnel lavici, i quali sono dei condotti di origine vulcanica comuni sulla Terra e che sembrano essere presenti anche su Marte e sulla Luna.
Purtroppo però, non riusciamo ancora a percepire quello che c’è veramente lì sotto, e non c’è nessuno strumento che, al momento, ce lo possa dire. Quindi è molto affascinante, perché è ancora uno dei “lati oscuri” dell’esplorazione spaziale. Una volta c’era il “lato nascosto” della Luna, che adesso conosciamo bene, ora quello che è rimasto veramente nascosto è questo altro aspetto dei pianeti, lo spazio ipogeo.
Come già successo qui sulla Terra, chi per primo riuscirà ad entrarci troverà, secondo me, qualcosa che andrà decisamente oltre le nostre aspettative.
Abbiamo discusso della possibilità che su Marte o sulla Luna ci siano forme di vita nelle caverne, quindi della grandissima importanza di questi spazi per la microbiologia e la biologia. Quali sono secondo lei altre ragioni per le quali l’uomo deve andare nelle caverne su altri corpi planetari, oltre alle ragioni scientifiche, anche proprio di esplorazione?
Possiamo sicuramente affermare che l’interesse scientifico verso le caverne planetarie non si limita solo alla vita, ma include tanti altri aspetti. Inoltre, su tutti gli altri pianeti del nostro Sistema Solare, purtroppo la superficie è inospitale. Ciò, rende molto complessa e rischiosa la realizzazione di insediamenti a lungo termine: o impostiamo delle basi estremamente spaziose, schermate e riscaldate/raffreddate (senza dimenticarci delle escursioni termiche estreme che si hanno sulla Luna e su Marte…), per permetterci di vivere per lunghi periodi ed in una quantità di persone sostenibile, altrimenti l’unica alternativa vera è il sottosuolo.
Finché non ci saranno delle tecnologie veramente molto avanzate, il sottosuolo, infatti, rimane il luogo più ospitale ed adatto a sostenere la vita. A tal fine, il posto più interessante sarebbe il passaggio dal sottosuolo alla superficie, cioè quella zona della soglia, dell’ingresso delle caverne, ad esempio come nel caso dei tunnel lavici menzionati poc’anzi.
Quel luogo offre entrambe le prospettive: la prospettiva di ricevere radiazione solare (quindi luce naturale), ma anche la possibilità di essere in un ambiente protetto e riparato, che è fondamentale per la salute degli astronauti, soprattutto per quanto riguarda il rischio relativo alle radiazioni. Quindi, se vogliamo veramente pensare di avere delle basi stabili su di altri pianeti, il mondo sotterraneo potrebbe essere il luogo che offre più possibilità.
Anche in termini di risorse: non sappiamo cosa potremmo trovare dentro queste grotte, ci potrebbero essere acqua, ghiaccio, ghiaccio di CO2, minerali particolari… e chissà cos’altro. Probabilmente ci sono delle condizioni che, rispetto alla superficie, rendono più probabile la presenza di risorse importanti.
Per completare questo racconto: come ha fatto a trovarsi da speleologo calato in esperienze “terrestri” ad operare attivamente nel campo spaziale, addirittura allenando gli astronauti di ESA, NASA…?
È una cosa che apparentemente sembrava anche a me completamente scollegata. E’ successo perché alcune persone in ESA, tra tutte Loredana Bessone, me l’hanno proposto, coinvolgendomi. Poi, iniziando a conoscere meglio anch’io il mondo dello spazio (che non era il mio mondo), ho appreso quanto sarebbe potuto essere interessante questo scambio.
Un aspetto curioso è che più le persone si avvicinano alla speleologia, quindi all’esplorazione del mondo sotterraneo, più quelli che tra di loro lavorano nell’ambito spaziale si rendono conto che effettivamente c’è una grande possibilità di aprire nuovi orizzonti, sia per quanto riguarda l’addestramento di astronauti ma anche per tutto il resto…
Il ritorno sulla Luna con Artemis, per esempio, avrà un grossissimo ritorno di interesse per l’esplorazione umana dello spazio, però cosa succederà quando saremo di nuovo come nelle missioni Apollo alla terza, quarta missione sulla superficie lunare, come faremo a giustificare spese così enormi, quando anche l’aspetto dell’emozione esplorativa comincerà un po’ a scemare? Le grotte, secondo me, sono una frontiera che va investigata.
Nel senso che, se noi dicessimo di avere delle immagini di grotte, sarebbe una cosa totalmente nuova, che non ha niente a che fare con le missioni Apollo. Sono delle prospettive, e questo la gente comincia a capirlo, che c’è bisogno di esplorare anche per dare un immaginario nuovo per l’esplorazione spaziale… è stato fatto benissimo dall’ESA con la missione Rosetta, cioè l’idea di andare su una cometa, che non è un pianeta, è un oggetto stranissimo. Hanno avuto un’intuizione incredibile, quella missione ha cambiato l’immaginario collettivo. Anche le grotte possono avere questo ruolo, ed entrare nel mondo spaziale in modo molto importante.
Il pubblico, cioè l’uomo, ha bisogno di sentirsi parte dell’esplorazione dell’universo. Anche chi non sarà mai astronauta ha bisogno di sentirsi coinvolto nell’esplorazione della conoscenza. Ovviamente, quando questa diventa estremamente specialistica diventa difficile coinvolgere le persone. Quando invece è un’esplorazione visiva, geografica, e uno può immaginare di trovarsi in quella situazione, tutto cambia. È per questo che le missioni Apollo sono state così “potenti”, e lo stesso sarà di nuovo con Artemis.
Lo stesso è stato anche con il rover Curiosity su Marte. Ora, una nuova missione su un delta fluviale non avrà più lo stesso effetto della prima, mentre magari una missione sui poli marziani avrà un effetto molto potente sull’immaginario umano.
Da parte mia, quello che sto cercando di far passare alle agenzie spaziali è proprio questo: l’opportunità che si crea nel momento in cui si decide di andare a vedere con i nostri occhi, o con gli occhi di un robot, cosa c’è dentro una grotta lunare. Si aprirebbero le porte di un altro mondo, e la gente qui sulla Terra rimarrebbe a bocca aperta…
Quali sono le esperienze più importanti che ha fatto mettendosi nei panni degli astronauti durante l’esplorazione in grotta? Cos’è che ha imparato, guardando la grotta dal loro punto di vista?
Sicuramente è uno scambio, perciò sì, ho imparato molto. Innanzitutto, l’astronautica è molto legata a procedure, a schemi, e a previsioni del rischio; a cercare di tenere sotto controllo l’ambiente, anche se a volte questo è difficilmente controllabile. Nel caso delle grotte, la pianificazione dell’esplorazione è una cosa fondamentale. Quando si esplora tra noi, in gruppo speleologico, molte cose vengono tramandate per esperienza dall’uno all’altro, non c’è uno schema preciso. Quindi è stato molto utile, per me, apprendere questo aspetto procedurale, proprio dell’ ambito spaziale.
Poi, c’è un altro aspetto, che è quello della tecnologia. Il nostro è diventato un mondo super tecnologico, ma nelle grotte la tecnologia non è mai stata utilizzata, ed è sbagliato. La tecnologia, infatti, può dare grandissime prospettive e può anche avere degli sviluppi inaspettati. Ad esempio, lo sviluppo dei droni da grotta ha portato allo sviluppo di dispositivi che permettono di ispezionare le centrali nucleari senza rischi per le persone. Questo vale anche per le analisi rischiose in situ, ad esempio in tratti pericolosi dei ghiacciai.
Quindi sì, è bello esplorare la grotta con gli strumenti tradizionali, con le poche cose che si usavano una volta, però non è che si perda il fascino con la tecnologia; anzi, la tecnologia offre una nuova visione. I visori 3d permettono di vedere la grotta in un modo che non avremmo mai pensato, i laser scanner ci permettono di studiare le superfici per applicazioni diverse. Questo aspetto della tecnologia, anche comunicativo, secondo me, è molto importante.
Poi, un’altra cosa che ho imparato dagli astronauti, o meglio, che ho capito anche se già lo facevamo anche noi, è l’importanza del lavoro di squadra e dei ruoli. Anche quella è una cosa fondamentale. La flessibilità di uscire dai propri campi di competenza, ma allo stesso tempo la pianificazione, il riuscire a vivere in gruppo per lunghi periodi.
Lei è una figura sulla Terra più simile a quella di un astronauta. Cosa si prova ad entrare per la prima volta in un luogo dove sai che non c’è stato nessuno almeno da 40.000 anni? È questo che spinge a rischiare tutto?
È una domanda molto interessante, perché si applica anche all’astronauta. Dovete immaginare che un astronauta che viene addestrato sulla Terra per andare sulla Stazione Spaziale Internazionale in realtà non ha mai avuto l’esperienza di trovarsi realmente di fronte all’ignoto assoluto. Ce l’avranno questa esperienza quando dovranno tornare sulla Luna, affrontare un terreno di cui hanno delle immagini che magari non sono così definite, quando dovranno andare in una grotta lunare, quando dovranno andare su Marte… Sulla Terra ci sono pochi posti dove possiamo affrontare questo ignoto assoluto, dove non sai predire cosa troverai.
Esplorare un luogo nuovo in grotta innanzitutto è una grande emozione, perché non sai mai cosa ti aspetti. C’è questo senso di aspettativa, questo “non sai cosa ci sarà”, io dico sempre che risveglia quel piccolo pezzo di DNA umano che è quello che vuole vedere, che vuole fare la scoperta. Purtroppo, noi non siamo più abituati stupirci di fronte alla natura che ci circonda. Questa quindi è un’opportunità che non è così frequente, io ho vissuto esperienze assurde… spesso davvero difficili da spiegare. La prima volta che ti ci trovi, rimani a bocca aperta e ti senti un privilegiato che sta percorrendo un mondo che era sconosciuto, in quel sogno di bambino di creare un proprio mondo, che a volte ci aiuta a ritornare un po’ “primitivi”.
Questa intervista fa parte della rubrica “Vivere nello spazio” di Astrospace.it ideata e gestita dall’Architetto Francesco Romio, una serie di interviste e approfondimenti per capire quali sono le ricerche e le tecnologie che ci permetteranno presto di vivere fuori dall’atmosfera terrestre.