Utilizzando un radiometro a microonde, gli orbiter lunari cinesi Chang’e 1 e 2 sono stati in grado di mappare le temperature al di sotto della superficie lunare. Gli strumenti trasportati dagli orbiter hanno effettuato misurazioni in quattro diversi canali spettrali (3.0 GHz, 7.8 GHz, 19.35 GHz e 37 GHz). Di recente, è stato scoperto che uno dei possibili vulcani sui quali si stava indagando, noto come Compton-Belkovich, brillava intensamente nelle microonde.
Ciò significava che il vulcano era ancora caldo. Non in superficie, come sarebbe stato rilevato tramite infrarossi, ma più in profondità. L’unico modo per spiegare l’origine di questa anomalia è cercare qualche indizio nella crosta lunare profonda. Compton-Belkovich deve quindi nascondere una grande fonte di calore non ancora esaurita al di sotto della superficie.
L’ultima eruzione del vulcano Compton-Belkovich
Gli indizi in superficie indicano che questo vulcano probabilmente ha eruttato l’ultima volta 3.5 miliardi di anni fa. L’anomalia termica che è stata rilevata non proviene quindi dalla lava fusa, ma è una conseguenza della presenza di elementi radioattivi nella roccia ormai solida, situata al di sotto dell’edificio vulcanico. I dati raccolti mostrano anche che questo grande vulcano lunare era una volta alimentato da una camera magmatica ancor più grande, il cui magma si è ormai solidificato.
L’unico tipo di roccia che contiene abbastanza elementi radioattivi da giustificare dati di questo tipo è il granito. Tuttavia, la formazione di granito richiede determinate condizioni. In particolare, la rifusione in più stadi del basalto o il frazionamento cristallino dei magmi basaltici. Questi processi determinano anche un aumento della concentrazione di elementi come il silicio, il potassio, il torio (Th) e l’uranio (U).
I rari clasti granitici rinvenuti nei campioni lunari raccolti contengono un’elevata concentrazione radiogenica. Tuttavia, l’origine e la scala dei sistemi che li hanno prodotti sono sconosciute.
Batolite granitico
La struttura rocciosa presente al di sotto di questo vulcano prende il nome di batolite granitico. Si tratta di un enorme corpo solido con un diametro superiore ai 20 chilometri, originatosi a partire da quella che era la camera magmatica del vulcano.
La geomorfologia di questo vulcano indica la presenza di una caldera vulcanica che ha subito un collasso “a pistone”. Ovvero, il pavimento della caldera ha ceduto, sprofondando verso il basso in un unico blocco poco frammentato. Questo tipo di collasso si forma generalmente al di sopra di camere magmatiche ellissoidali e poco profonde.
Grazie alle faglie prodotte a seguito del collasso, è stato stimato il diametro strutturale della caldera, e di conseguenza quello della camera magmatica, di circa 13 km. Probabilmente era suddivisa in corpi più piccoli.
Il vulcanismo lunare è il più simile a quello terrestre
“Sulla Luna era presente un vulcanismo abbondante con basalti alluvionali, ovvero lave fluide che scorrevano velocemente e che hanno coperto circa il 16% della superficie lunare” ha affermato Matthew Siegler, Senior Scientist presso il Planetary Science Institute. “Erano invece poco presenti lave viscose, più spesse e dense con alte concentrazioni di silice, che potevano formare strutture simili a quelle che chiameremmo un vulcano”.
Le rocce granitiche sono comuni sulla Terra, soprattutto grazie ai fenomeni legati alla tettonica delle placche. I sistemi rocciosi nel resto del Sistema Solare sono invece dominati da rocce basaltiche. I magmi basaltici sono originati dalla fusione in un unico stadio del mantello, a differenza di quelle granitiche che richiedono processi più complicati.
Le batoliti sono formazioni presenti anche sulla Terra, si trovano tipicamente al di sotto delle catene vulcaniche, come ad esempio quella delle Ande o la catena montuosa delle Cascate, in America settentrionale. Questo fenomeno di vulcanismo lunare è il più simile a quelli presenti sulla Terra, si tratta pertanto di una scoperta inaspettata considerando l’evoluzione geologica della Luna.
L’abstract dello studio, pubblicato sulla rivista Nature, è reperibile qui.