Se metà delle stelle della Via Lattea sono solitarie, come il nostro Sole, l’altra metà invece comprende stelle in sistemi binari o addirittura multipli. Di recente, gli astronomi del MIT (Massachussets Institute of Technology) hanno scoperto una coppia di stelle binarie con un’orbita estremamente breve, pari a circa 51 minuti. Si tratta di ZTF J1813+4251, un sistema a circa 3.000 anni luce dalla Terra, nella costellazione di Ercole.
Il sistema sembra appartenere alla rara classe delle variabili cataclismiche, in cui una stella simile al nostro Sole orbita strettamente attorno a una nana bianca, nucleo caldo e denso di una stella esplosa.
La scoperta
Gli astronomi hanno scoperto il nuovo sistema all’interno di un vasto catalogo di stelle della Zwicky Transient Facility (ZTF). Si tratta di un’indagine che utilizza una fotocamera collegata a un telescopio del Palomar Observatory in California, per scattare foto ad alta risoluzione di ampie fasce del cielo. L’indagine ha acquisito più di 1.000 immagini di ciascuna delle oltre 1 miliardo di stelle nel cielo, registrando la variazione di luminosità di ciascuna stella nel corso di giorni, mesi e anni.
Kevin Burdge, Pappalardo Fellow nel Dipartimento di Fisica del MIT e autore principale dello studio, ha setacciato il catalogo ZTF alla ricerca di segnali di sistemi con orbite ultracorte, la cui dinamica può essere così estrema da emettere drammatiche esplosioni di luce e onde gravitazionali. In particolar modo, Burdge ha esaminato i dati ZTF alla ricerca di stelle:
- Che sembravano lampeggiare ripetutamente.
- Con un periodo inferiore a un’ora (una frequenza che tipicamente segnala un sistema di almeno due oggetti in orbita ravvicinata).
Utilizzando un algoritmo, i ricercatori hanno setacciato circa 1 milione di stelle che sembravano lampeggiare ogni ora circa. Tra questi, Burdge ha poi cercato segnali di particolare interesse, trovando J1813+4251, che ha nuovamente osservato utilizzando l’Osservatorio WM Keck alle Hawaii e il Gran Telescopio Canarias in Spagna. Così facendo, i ricercatori hanno scoperto potevano vedere chiaramente il cambiamento di luce del sistema ad ogni eclissi. Con tale chiarezza, sono stati in grado di misurare con precisione la massa e il raggio di ogni oggetto, nonché il loro periodo orbitale.
Le caratteristiche della coppia cataclismica
Il primo oggetto è probabilmente una nana bianca, con 1/100 le dimensioni del nostro Sole e circa la metà della sua massa. Il secondo oggetto è una stella ormai in fin di vita ma simile al Sole, con un decimo delle sue dimensioni e della sua massa, ovvero circa le dimensioni di Giove.
Le stelle sembravano orbitare l’una intorno all’altra ogni 51 minuti. Per spiegare questo fatto, si sono ricondotti a uno studio del MIT di circa 30 anni fa, in cui i ricercatori avevano predetto che i sistemi a orbita ultracorta avrebbero dovuto esistere come variabili cataclismiche.
Una variabile cataclismica si verifica quando le due stelle si avvicinano, nel corso di miliardi di anni, facendo sì che la nana bianca inizi ad accumulare o divorare materiale dalla sua stella partner. Questo processo può emettere lampi di luce enormi e variabili che, secoli fa, gli astronomi presumevano fossero il risultato di un cataclisma sconosciuto. Da qui il loro nome.
La variabile cataclismica con un’orbita cortissima
Il sistema scoperto è la variabile cataclismica con l’orbita più corta rilevata fino ad oggi. Con i dati a loro disposizione, i ricercatori hanno eseguito simulazioni di ciò che probabilmente il sistema sta facendo oggi e di come dovrebbe evolversi nei prossimi centinaia di milioni di anni.
A conclusione di ciò, Burdge e colleghi ipotizzano che le stelle sono attualmente in transizione e che la stella simile al Sole ha donato gran parte della sua atmosfera di idrogeno alla nana bianca. La prima alla fine sarà ridotta a un nucleo per lo più denso e ricco di elio. In altri 70 milioni di anni, le stelle migreranno ancora più vicine, con un’orbita ultracorta che raggiungerà appena 18 minuti, prima che inizino ad espandersi e allontanarsi.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Nature, è disponibile qui.
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