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| On 3 anni ago

Le quattro parole che in trenta secondi salvarono l’Apollo 12

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La mattina del 14 Novembre 1969 il cielo della Florida era tutto tranne che beneaugurante. Il Saturn V si stagliava, carico di propellente, sotto le nubi minacciose che coprivano come un manto il Kennedy Space Center. Stava per partire la missione Apollo 12. 

Ad oltre cento metri di altezza, nel modulo di comando battezzato Yankee Clipper, i tre uomini dell’equipaggio avevano terminato le procedure prevolo ed avevano ricevuto dal centro di controllo il “go for launch”. Quelle tre parole sancivano l’inizio del loro viaggio verso la Luna.

Nelle vesti di comandante c’era Charles “Pete” Conrad, un veterano del volo spaziale con già due missioni Gemini alle spalle. Sulla Luna con lui sarebbe sceso, da lì a pochi giorni, Alan Bean. Alla sua prima esperienza spaziale, Bean era stato personalmente raccomandato da Conrad a Deke Slayton, allora responsabile dell’assegnazione degli equipaggi delle missioni Apollo.
Come pilota del modulo di comando, a svolgere le stesse mansioni che sull’Apollo 11 erano delegate a Michael Collins, si trovava Richard Gordon, partner di Conrad sulla Gemini 11.

Il Saturn V con a bordo Conrad, Bean e Gordon si innalza nei cieli della Florida il 14 Novembre 1969 per la missione Apollo 12. Credits: NASA

Poco dopo le 11 di mattina, i cinque motori F1 ruggirono iniziando la missione Apollo 12. Grazie alle oltre tremila tonnellate di spinta che erano in grado di erogare, il Saturn V si era lentamente sollevato dalla piattaforma di lancio. Dopo trentasei secondi dal lancio, con il veicolo ad oltre due kilometri di quota, un fulmine aveva sfruttato la forma affusolata del razzo e la scia dei gas di scarico per farsi strada verso terra. Sedici secondi più tardi, l’evento si era ripetuto.

“Cosa diavolo è stato?”

Questa era stata la prima reazione di Gordon, occupato a tenere d’occhio la maggior parte della strumentazione del modulo di comando. Sul pannello davanti a lui si erano appena accese quasi tutte le luci, più di quante i tre astronauti ne avessero mai viste durante le simulazioni.

Ciò che nessuno ancora sapeva, né l’equipaggio né tantomeno il centro di controllo, era che l’intero sistema elettrico del modulo di comando era appena andato in protezione. A seguito del primo fulmine, appositi sensori a stato solido avevano disconnesso le tre fuel cells dal bus principale e delegato ad altrettante batterie il compito di alimentare i sistemi della navicella. Le fuel cells sono dei dispositivi elettrici che, partendo da idrogeno ed ossigeno, producono energia elettrica ed acqua.

Il sistema di protezione aveva funzionato perfettamente, ma i circuiti avevano subìto per circa 30 millisecondi un calo di tensione dai 28V nominali fino a circa 18V. Subito dopo, le batterie avevano riportato la tensione ai 24V di emergenza. Sebbene brevissimo, questo calo di tensione aveva portato allo spegnimento improvviso di molti sistemi, con conseguente riavvio in modalità di emergenza e l’accensione di una miriade di spie in cabina.

L’orizzonte artificiale che iniziò a roteare vorticosamente a seguito del secondo fulmine. Credits: NASA/Apollo 12

Eppure fu il secondo fulmine a causare il danno peggiore, mandando in tilt il sistema di guida del modulo di comandoL’orizzonte verticale in cabina iniziò a ruotare vorticosamente – dato che il computer di bordo non era più in grado di calcolare posizione ed assetto – tanto che gli astronauti pensarono per un momento di essersi distaccati dal razzo.

L’unico motivo per il quale il razzo aveva continuato indisturbato la sua ascesa verso il cielo stava nel fatto che i motori erano comandati dalla Instrument Unit montata in cima al terzo stadio. Nulla a che vedere con la strumentazione interessata dal sovraccarico.

Al centro di controllo, la situazione non era meno agitata. I tecnici ricevevano una telemetria totalmente incomprensibile ed indecifrabile, e l’aborto di missione era una possibilità che si concretizzava ogni istante di più. Fu allora che il Flight Director, colui che si potrebbe definire il regista della missione, dalla sua postazione passò la patata bollente all’unica persona in quella stanza in grado di dipanare la matassa: il responsabile EECOM (acronimo di Electrical Environmental Consumables Manager).

“EECOM, cosa ne pensi?”

Quel giorno, alla postazione di responsabile EECOM, sedeva un ragazzo texano di ventisei anni. Il suo nome era John Aaron e, nonostante la giovane età, poteva vantare una non trascurabile esperienza maturata durante le missioni Gemini.

John Aaron seduto alla sua postazione di responsabile EECOM. Credits: NASA

“Cosa ne pensi?” gli era stato chiesto dal Flight Director Gerald Griffin. Non era chiaramente una domanda alla quale si potesse rispondere “non ne ho idea”. Data la posizione che ricopriva, Aaron era senza dubbio la persona che meglio conosceva i sistemi elettrici della navicella, ma il Saturn V era estremamente complesso, anche per uno preparato come lui.

La telemetria che giungeva dal modulo di comando era incomprensibile, ma quei numeri così strani aprirono un cassetto della sua memoria. Se si fosse trattato di un semplice sovraccarico, con conseguente spegnimento di alcuni sistemi, avrebbero dovuto ricevere segnali nulli. Ma non era ciò che stava accadendo. La navicella cercava di mandare a Terra qualcosa, ma sembrava non riuscire a codificarlo correttamente.

Fu lì che il cassetto si aprì del tutto. Qualche tempo prima, durante un turno di notte, aveva origliato una conversazione tra un gruppo di tecnici appena incappati in un problema molto simile.
Dopo aver tolto l’alimentazione principale ad un modello di capsula, si erano trovati a dover fare i conti con una telemetria illeggibile: anziché segnali nulli, arrivavano valori apparentemente casuali.

Mosso dalla curiosità di indagare a fondo quella voce di corridoio, Aaron aveva condotto delle ricerche indipendenti insieme ad un collega. Avevano scoperto che quello strano comportamento era imputabile ad un particolare sistema di bordo denominato SCE, il Signal Conditioning Equipment.

L’SCE, l’equipaggiamento incriminato. Credits: NASA/ Apollo 12

Il ruolo dell’SCE era tanto semplice quanto vitale: raccogliere i dati provenienti da una miriade di sensori, impacchettarli e rimandarli a Terra sotto forma di telemetria leggibile da un essere umano.
Essendo un equipaggiamento critico per la buona riuscita della missione, il suo sistema di alimentazione era ridondato.

Quel calo di tensione di pochi millisecondi aveva mandato l’SCE in modalità di emergenza, senza però riavviarlo del tutto. Occorreva riavviarlo, o l’unica alternativa era abortire la missione. Aaron aveva impiegato solo una trentina di secondi a risalire all’origine del problema

“Try SCE to AUX”

“Provate SCE su AUX” gridò al CAPCOM Gerald Carr, incaricato delle comunicazioni con gli astronauti. Chi era in quella stanza racconta che sia il CAPCOM che il Flight Director sgranarono gli occhi quando sentirono quella sigla. Non avevano idea del sistema a cui quel giovane si riferiva.

Senza esitare oltre, le parole di Aaron furono riportate agli astronauti, che non ebbero una reazione molto diversa. All’inizio capirono FCE, che ricordava loro le fuel cells, poi Alan Bean realizzò che il pulsante da premere si trovava proprio davanti a lui, sul pannello elettrico di destra.

Portò la levetta dallo stato “Normal” ad “Auxiliary”, come suggerito dal centro di controllo.
Il riavvio del sistema fu immediato, così come la trasmissione a Terra di una telemetria comprensibile. Erano passati meno di cento secondi dal lancio.

Si decise di attendere un altro minuto prima di riportare l’intero sistema elettrico sotto l’alimentazione delle fuel cells. Gli animi si rilassarono solo una volta raggiunta l’orbita di parcheggio attorno alla Terra. Fu allora che dal centro di controllo ammisero “quaggiù abbiamo avuto un paio di arresti cardiaci”.

Gli ultimi controlli, poi la Luna

Per vederci chiaro, agli astronauti fu consigliato di effettuare dei controlli approfonditi alla navicella prima di procedere alla Trans Lunar Injection, l’accensione del motore del terzo stadio che li avrebbe spediti verso la Luna.

Si scoprì che i due fulmini avevano bruciato cinque sensori di temperatura – quattro dei quali sulla superficie esterna del modulo di comando – ed alcuni sensori di pressione nei serbatoi degli RCS (i piccoli motori usati per il controllo dell’assetto). Fortunatamente, tutti questi sensori erano ridondati ed agli astronauti giunse l’autorizzazione a procedere per la Luna.

Alan Bean sulla superficie lunare a fianco del Surveyor 3, allunato nel 1967 e destinazione di una delle attività extraveicolari. Credits: NASA/Apollo 12

Il modulo lunare Intrepid si posò sulla superficie lunare quattro giorni più tardi, dove i due astronauti svolsero ben due attività extraveicolari nell’arco di trentuno ore. Il ritorno verso la Terra si svolse senza intoppi. Quanto a John Aaron, per la prontezza di risposta si guadagnò dai colleghi il soprannome di “steely-eyed missile man”L’espressione non è facilmente traducibile in italiano ed ancora oggi in America si usa riferirsi così a chiunque sappia suggerire in brevissimo tempo una soluzione ad un caso disperato.

Eppure, i suoi contributi al programma Apollo non terminarono quel giorno. Aaron partecipò anche attivamente al salvataggio dell’equipaggio dell’Apollo 13, ma questa è una storia che merita un approfondimento a parte.

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