In orbita ci sono oltre 11 mila satelliti, ma se consideriamo anche gli oggetti artificiali non più attivi, come vecchi satelliti, pezzi di detriti spaziali o addirittura rifiuti, sono tracciati milioni di oggetti sopra il centimetro. Sono tutti elementi che pongono delle sfide non indifferenti agli operatori satellitari, proprio ora che si stanno costruendo megacostellazioni sempre più grandi.
Di questo parliamo oggi con Spaceflux, una startup inglese che si occupa di tracciare, misurare e studiare i detriti nello spazio. Abbiamo raggiunto Mentore Giorgetti, Managing director of Spaceflux Italia, per porgli qualche domanda su quanto sia importante tracciare e studiare questi detriti, ma anche per annunciare l’apertura della sede italiana dell’azienda, la cui presentazione ufficiale è avvenuta a maggio 2025.
Partiamo dal quadro generale: quanto è affollata oggi l’orbita terrestre bassa e quali sono le principali conseguenze di questo affollamento?
Le orbite più basse, in particolare la LEO, sono oggi sicuramente le più affollate. Essendo la più vicina alla Terra, è anche la più facile ed economica da raggiungere. Questo ha portato a uno sviluppo impressionante di questa fascia orbitale. Tuttavia, proprio per la sua vicinanza, lo spazio disponibile è più limitato rispetto, ad esempio, all’orbita intermedia o a quella geostazionaria.
In LEO si concentra una popolazione di satelliti enorme, destinata a crescere in modo esponenziale. Solo la Cina prevede, con due sole megacostellazioni, il lancio di decine di migliaia di satelliti. Aggiungendo Kuiper di Amazon, il quadro diventa chiaro: la densità spaziale è destinata ad aumentare ancora, senza quindi parlare del trend già iniziato con Starlink.

A tutto ciò si aggiungono i detriti: da vecchi satelliti ormai defunti lanciati anche negli anni ’60, a componenti generati in ogni lancio, come i bulloni esplosivi che separano gli stadi (che, anche se nessuno ne parla) sono detriti che rimangono per anni in orbita. Anche solo un frammento può essere potenzialmente letale, muovendosi a 28.000 km/h. Un esempio noto è quello della ISS, colpita da una scheggia di vernice larga un centimetro qualche anno fa: questa scheggia ha quasi perforato un modulo pressurizzato.
Questo innesca la cosiddetta Sindrome di Kessler: ogni impatto crea nuovi frammenti che generano a loro volta altri impatti, in un ciclo esponenziale. Secondo la NASA, esistono oltre 25 mila oggetti sopra i 6 cm, mezzo milione tra 1 e 2 cm e centinaia di milioni sopra il millimetro.
Tracciare questi oggetti è vitale: significa prevenire collisioni, proteggere missioni e garantire la sicurezza degli astronauti, ma è fondamentale anche perché lo spazio ormai è diventato essenziale per la vita sulla Terra, anche se in molti ancora non ne sono consapevoli.
Serve quindi un maggiore tracciamento, ma anche una regolamentazione efficace. A tuo avviso sono questi i due pilastri principali, oppure servono altri strumenti?
La regolamentazione è fondamentale, ma non può essere responsabilità dei singoli Paesi. Se uno Stato decide di comportarsi in maniera sostenibile ma altri no, il problema resta. Fare le cose bene ha un costo elevato, spesso proibitivo. Senza un sistema di regolamentazione condiviso e un organismo di sorveglianza (qualcosa di simile al controllo del traffico aereo) le buone pratiche restano isolate.
Si tratta di sicurezza, non solo militare, ma anche economica. Un satellite che trasmette contenuti video, per esempio, ha un impatto commerciale enorme. Servono regole chiare, imposte in modo uniforme. Altrimenti è come dire a un paziente che ha il colesterolo alto: “Dovresti cambiare stile di vita”, ma senza dargli una cura od obbligarlo a seguirla.
Un altro problema è il modello attuale: molti satelliti piccoli, con cicli di vita brevi, rientrano in fretta ma intanto affollano la LEO. Pensi che questo approccio rischi di aggravare la situazione prima che arrivi una soluzione concreta? E nel caso, la soluzione sta ancora nel tracciamento?
C’è un paradosso: è proprio grazie all’accesso economico allo spazio che abbiamo visto nascere tante nuove aziende e soluzioni. Se l’accesso tornasse ad essere esclusiva di pochi governi, perderemmo tutta questa spinta innovativa.
Un punto chiave è la mancanza di obblighi globali. Ad esempio, molti operatori si limitano a usare Space-Track, il sistema della U.S. Space Force. Ma Space-Track non è abbastanza: genera migliaia di falsi allarmi, i modelli di propagazione sono imprecisi e mancano informazioni aggiornate su manovre o assetti classificati.
Ricordo che due anni fa, i responsabili del progetto Kuiper ci dissero che si aspettavano migliaia di falsi allarmi al giorno, solo per quella costellazione. Questo rende tutto insostenibile.
C’è anche una questione di costi. Oggi aziende giovani come la nostra possono offrire dati precisi a costi più accessibili. Solo cinque anni fa non era possibile. Oggi lo è. I sensori ottici, ad esempio, sono molto più economici di una stazione radar e funzionano meglio su orbite alte. Il problema è solo il costo di lancio dei satelliti in queste orbite.
Facciamo un passo indietro: puoi raccontarci come nasce Spaceflux e cosa fate?
Spaceflux nasce nel 2022 nel Regno Unito, con l’obiettivo di rendere lo spazio più sicuro. Ci occupiamo di Space Situational Awareness e Space Domain Awareness. Il primo è un ambito più commerciale, il secondo più legato alla difesa.
Forniamo dati e analisi per prevenire collisioni e proteggere infrastrutture spaziali. I nostri servizi sono pensati soprattutto per clienti governativi e commerciali e sono molto dettagliati: osserviamo e tracciamo tutto ciò che è visibile nelle tre orbite terrestri in tempo reale, identificando anche target non cooperativi.
La nostra rete è composta da sensori ottici proprietari distribuiti in tutto il mondo: 15 già attivi, altri 10 in fase di installazione. Tutti gli osservatori sono di nostra proprietà e li gestiamo direttamente.
Il nostro punto di forza è la combinazione tra rete proprietaria e capacità analitica, con il supporto di una piattaforma di intelligenza artificiale che elabora e consegna i dati al cliente entro 90 secondi.

Avete sviluppato anche sensori in grado di osservare di giorno, giusto?
Sì, con il Defence Science and Technology Laboratory britannico abbiamo sviluppato un sensore SWIR (infrarosso a onde corte), che funziona anche di giorno. Questo amplia moltissimo la copertura osservativa, e infatti Spaceflux è oggi fornitore esclusivo del governo britannico per l’orbita geostazionaria.
Abbiamo un dipartimento di ricerca e sviluppo, i nostri Spaceflux Labs, che lavorano anche su algoritmi predittivi e modelli per rilevare oggetti più piccoli dei limiti radar tradizionali.
Un altro progetto in corso è un sistema per il rilevamento automatico delle anomalie: quando un oggetto si comporta in modo inatteso, aumentiamo la frequenza di osservazione per capirne natura e pericolosità.
E per quanto riguarda Spaceflux Italia?
Abbiamo aperto Spaceflux Italia a fine 2024 per rafforzare la nostra presenza europea. Questo ci consente di assumere talenti locali, creare collaborazioni accademiche e sviluppare un ecosistema autonomo ma integrato con la sede inglese. L’obiettivo è costruire un polo europeo indipendente, non un semplice satellite dell’headquarter nel Regno Unito.
Lavoriamo già con la UCL a Londra, e vogliamo replicare questo modello con università italiane ed europee. Due dei fondatori provengono dal mondo accademico, con esperienza nell’astrofisica e nell’applicazione del machine learning all’analisi dei dati spaziali.
Questa è la nostra forza: unire rigore scientifico e velocità di esecuzione per affrontare un problema urgente, che riguarda tutti.
Ringraziamo Mentore Giorgetti, Spaceflux Italia e Spaceflux per questa intervista.









