A volte, per indagare un enigma cosmico occorre combinare diversi ambiti di ricerca. Quando parliamo di teoria, dati e tecnologia ci troviamo nello stesso campo da gioco. Tutti sono ugualmente fondamentali per arrivare al risultato finale.
Tradizionalmente la ricerca scientifica si basa su tre paradigmi fondamentali. I primi due sono i più antichi, risalendo ai tempi di Galileo: teoria ed esperimento. Su di essi si fonda il metodo scientifico-sperimentale. Più recente è invece il terzo paradigma, la simulazione. Grazie ai moderni calcolatori, ci si è resi conto che in alcuni casi è possibile costruire modelli artificiali di sistemi fisici, fissandone leggi e parametri, per poi osservarne l’evoluzione e raccogliere dati da utilizzare in ulteriori esperimenti. Costituiscono un esempio in tal senso le grandi simulazioni cosmologiche come la Millennium, la Aquarius e la Illustris.
Negli ultimi anni, questo stato delle cose è cambiato nuovamente grazie alla data science (la scienza dei dati), divenuta rapidamente il nuovo, quarto paradigma della ricerca scientifica, secondo la visione del compianto Jim Gray.
Naturalmente, l’astronomia è stata a sua volta rivoluzionata da questa ulteriore trasformazione, e negli ultimi anni sono cresciuti in maniera esponenziale i lavori che utilizzano un approccio data-driven, basato sull’utilizzo del machine learning e del data mining, ovvero dell’estrazione di conoscenza da grandi cataloghi e database di dati.
Un recente lavoro pubblicato da un gruppo di ricercatori guidato dal prof. Tilman Hartwig dell’Università di Tokyo costituisce un esempio perfetto di come questi diversi paradigmi di ricerca possano essere combinati assieme per indagare i misteri del cosmo. L’articolo, pubblicato sul The Astrophysical Journal e reperibile qui, si occupa infatti di un grande interrogativo sull’evoluzione dell’Universo come lo conosciamo oggi: le stelle di Popolazione III.
Il mistero delle prime stelle: la popolazione III
Sappiamo che le stelle sono le fornaci in cui sono stati forgiati la maggior parte degli elementi pesanti. Questi risultano presenti in quantità maggiori nelle stelle più giovani, quelle dette di Popolazione I, e meno abbondanti in quelle più antiche, chiamate di Popolazione II.
Tuttavia l’Universo primordiale, nelle prime decine o centinaia di milioni di anni successivi al Big Bang, era composto esclusivamente di idrogeno, elio e poche tracce di litio. Ciò significa che deve esserci stata una prima generazione di stelle, la Popolazione III, in cui gli elementi più pesanti (quelli che gli astronomi chiamano metalli) erano del tutto assenti, e proprio qui si sono formati.
Queste stelle dovevano essere estremamente massive, e perciò sarebbero esplose molto rapidamente in supernovae, spargendo per l’Universo i propri semi che hanno poi contribuito a formare la generazione successiva. Il problema sta nel fatto che di queste stelle finora non se n’è trovata traccia, se non alcune evidenze indirette, nonostante i numerosi tentativi.
L’archeologia stellare per mezzo dell’IA
La ricerca di Hartwig e colleghi tenta proprio di dipanare questa matassa, utilizzando il machine learning applicato sia a dati reali che simulati, attraverso quella che viene comunemente definita archeologia stellare. L’idea è:
- Vengono selezionati dati su stelle di Popolazione II molto antiche, caratterizzate da una percentuale particolarmente bassa di metalli.
- Questi dati vengono utilizzati per simularne altri, in due differenti configurazioni. Difatti, nel considerare la possibile evoluzione stellare, occorre tener presente uno scenario in cui la materia che compone una certa stella sia stata arricchita da una singola supernova, oppure lo scenario opposto, in cui abbiamo un arricchimento dovuto a esplosioni multiple.
Il modello si basa sui dati teorici dei processi di nucleosintesi all’interno delle supernovae, che avrebbero arricchito la generazione successiva di stelle neonate. - Utilizzando tali dati, il team ha selezionato un algoritmo di machine learning piuttosto noto, ovvero le Support Vector Machines (SVM). Si tratta di modelli di IA che, come le più note reti neurali, possono effettuare operazioni di classificazione o regressione in uno spazio dei parametri.
La differenza sta principalmente nell’algoritmo utilizzato per effettuare la separazione dei dati. In generale, le SVM sono da preferirsi quando non si hanno troppi dati a disposizione, al contrario delle reti neurali, che per funzionare bene richiedono molta più informazione.
Ma perché è interessante o importante sapere se una stella sia stata arricchita da una o più esplosioni di supernova? Semplicemente perché, nell’ipotesi che quelle supernovae fossero stelle di Popolazione III, ciò ci permetterebbe di capire di più sull’ambiente in cui queste si sono formate e sui loro processi evolutivi. In altre parole, ci darebbe un indizio su dove andare a cercare.
Un metodo dai risultati incerti
Purtroppo, i risultati della classificazione sono piuttosto incerti. Il metodo utilizzato, seppure sensato, porta a una percentuale di falsi positivi e falsi negativi intorno al 30%. Questo è troppo per ritenere i risultati conclusivi.
Ad ogni modo, la bilancia sembrerebbe pendere dalla parte di un arricchimento multiplo. Ciò significherebbe che le stelle di Popolazione III si sarebbero formate prevalentemente in piccoli ammassi, esplose poi pressoché in contemporanea per arricchire la generazione successiva. La situazione è leggermente diversa per le stelle con metallicità estremamente bassa, che sembrerebbero essersi arricchite da singole supernovae.
È probabile che un simile lavoro richieda dati più attendibili e in quantità maggiore per funzionare adeguatamente e garantire risultati conclusivi. Non solo per quanto riguarda i dati reali, ma anche dal punto di vista di quelli generati dai modelli di nucleosintesi, che potrebbero dover essere raffinati. Probabilmente è solo questione di tempo, ma la caccia alla sfuggente Popolazione III continua…
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