La missione Artemis 1, dopo il secondo flyby della Luna, si sta avvicinando alla conclusione. Lunedì 5 dicembre è iniziato ufficialmente il viaggio di ritorno sulla Terra, dopo 14 giorni passati in prossimità della Luna. 6 di questi la Orion li ha passati in un’orbita DRO, che l’ha portata alla massima distanza dal nostro Pianeta, mai raggiunta da una capsula adibita al trasporto e rientro di astronauti nello spazio.
Dopo il secondo flyby, altri 7 giorni saranno necessari per il viaggio di ritorno verso la Terra: la missione si concluderà con il rientro della capsula Orion nell’atmosfera terrestre ed il suo ammaraggio nell’oceano Pacifico, atteso per l’11 dicembre alle 18:40. Per l’occasione seguiremo l’evento con una diretta speciale sul canale YouTube di Astrospace.it, a partire dalle 14:00 dell’11 dicembre.
Sebbene l’uomo sia già riuscito più volte a mettere piede sulla Luna durante le missioni Apollo, il viaggio verso il nostro satellite presenta ancora notevoli criticità. Oltre alla sicurezza nello spazio, la capsula deve ovviamente permettere anche un rientro sicuro in atmosfera.
Proprio il rientro atmosferico sarà il test principale che la Orion si troverà ad affrontare nella missione Artemis 1. Infatti, il rientro dall’orbita lunare avviene a velocità più elevate di un rientro da LEO. Questo pone notevoli sfide che richiedono di essere approcciate in maniera particolare.
Le componenti di Orion
La capsula Orion, o Orion MPCV (Multi-Purpose Crew Vehicle), è un veicolo spaziale parzialmente riutilizzabile operato dalla NASA e progettato per operare nello spazio (interplanetario) profondo. Può dunque essere utilizzata per viaggiare oltre l’orbita terrestre, ad esempio verso la Luna o Marte.
La navetta, nata dalla collaborazione tra Stati Uniti ed Europa, è composta dal Crew Module (CM) e dal European Service Module (ESM). Il primo è realizzato dalla compagnia Lockheed Martin ed è basato sul Crew Exploration Vehicle (CEV) progettato per il defunto programma Constellation. Il secondo, invece, è assemblato da Airbus Defense and Space ed è il successore dell’Automated Transfer Vehicle (ATV), sviluppato dall’ESA e regolarmente usato come cargo per la ISS tra il 2008 ed il 2014.
Il Crew Module, il cui primo volo risale al 2014, può ospitare da 2 a 6 astronauti, a seconda delle esigenze della missione, ha un diametro di 5 metri per 3 di lunghezza, pesa circa 10400 Kg al lancio e può riportare a terra circa 100 Kg di materiale extra. Il suo design è chiaramente ispirato alle capsule Apollo.
La tecnologia, ovviamente, è stata aggiornata permettendo prestazioni migliori ed un maggiore volume abitabile. Ad oggi, Lockheed Martin ha ricevuto ordini per 9 capsule, 8 da utilizzare per le missioni Artemis fin qui in programma e una già usata nel test del 2014. Se necessario, fino a ulteriori 3 capsule potranno essere ancora ordinate e prodotte. Il CM è la parte effettivamente abitabile dall’equipaggio, nonché l’unica intesa a sopravvivere alla fase d’ingresso in atmosfera. Per questo motivo, solo tale modulo è dotato di un sistema di protezione termica per il rientro.
Il modulo di servizio europeo
Il modulo ESM, invece, non è riutilizzabile e non è pressurizzato. Esso è progettato per ospitare i sistemi di propulsione (il motore principale è il rodato AJ10-190, già usato nello Space Shuttle Orbital Maneuvering System) e controllo di assetto, nonché i pannelli solari per la generazione di energia.
Questi ultimi hanno un’apertura di circa 19 metri una volta dispiegati nello spazio, mentre da ripiegati rientrano nei 4.1 metri di diametro (per 4 di lunghezza) del ESM. All’estremità dei quattro pannelli solari sono poste delle telecamere, quattro GoPro Hero 4 che ci hanno fornito alcune delle immagini più iconiche di questa missione.
Il modulo contiene anche risorse utili (acqua e aria) per la sopravvivenza di un equipaggio di 4 persone fino a 20 giorni di missione, oltre al sistema di controllo termico per gestire le temperature della capsula nello spazio. Anche in questo caso, pur svolgendo un ruolo simile, le prestazioni sono molto maggiori rispetto al suo predecessore, il Command and Service Module (CSM) delle missioni Apollo.
Essendo progettata per operare con equipaggio umano a grandi distanze dalla terra, la capsula Orion, dal punto di vista tecnico è tra i veicoli spaziali più avanzati al mondo: in termini di sistemi di supporto vitale, controllo ambientale, navigazione, comunicazione e protezione dalle radiazioni cosmiche.
Quest’ultimo aspetto è particolarmente importante, in quanto lontano dalla Terra i raggi cosmici non potranno essere schermati dal campo magnetico del nostro pianeta. Il CM sarà quindi equipaggiato con HERA (Hybrid Electronic Radiation Sensing), un sistema in grado di avvertire gli astronauti contro eventi di irraggiamento potenzialmente pericolosi come i brillamenti solari.
Inoltre, durante la missione senza equipaggio Artemis 1, si sta conducendo l’esperimento MARE (Matroshka AstroRad Radiation Experiment) per testare una sorta di giubbotto anti-radiazioni.
La Lunar Return Skip Entry: una manovra (quasi) nuova
Le condizioni che la capsula Orion si troverà ad affrontare in fase di rientro saranno ovviamente simili a quelle già incontrate dalle capsule Apollo. In questi casi, la velocità con cui la capsula inizia il rientro in atmosfera è di circa 11 km/s, che rappresenta una condizione più proibitiva di un rientro dall’orbita bassa terrestre (lo Shuttle, ad esempio, cominciava la sua manovra a 7.7 km/s). La capsula dovrà quindi perdere gran parte di questa velocità prima di poter aprire i paracadute a pochi kilometri dal suolo ed ammarare nell’oceano Pacifico.
La capsula Orion tenterà una manovra detta Lunar Return Skip Entry che consiste nell’entrare in atmosfera e “rimbalzare” nuovamente verso l’orbita, per poi rituffarsi una seconda volta per la discesa finale che si concluderà con lo splashdown. Tale manovra non è nuova, ma non è stata ancora utilizzata con veicoli per equipaggio umano. Il rimbalzo in atmosfera permette di estendere la distanza (entry range) tra il punto di primo ingresso in atmosfera e il punto di splashdown.
Infatti, controllando l’entità del rimbalzo si può allungare o accorciare il range, idealmente permettendo di ammarare sempre in una zona predefinita dell’oceano. La manovra è resa possibile sfruttando la portanza che la capsula può generare, rendendo quindi il rientro in atmosfera controllato e non balistico (al contrario di quanto succedeva per le missioni Apollo).
L’utilizzo della Skip Return Entry permetterà di avere un migliore controllo sul punto di splashdown: adattando l’entry range, si può mantenere fisso il punto di ammaraggio e al tempo stesso mantenere grande flessibilità sul punto in cui la capsula inizia la sua manovra in atmosfera. Un altro vantaggio di questa tecnica è che la decelerazione della capsula sarà divisa in due parti.
Durante la prima fase, la capsula frenata dall’atmosfera perderà parte della propria energia, così che la velocità di approccio nella seconda fase sarà più bassa. Quindi, rispetto ad un rientro diretto, la capsula Orion ed il suo equipaggio subiranno delle decelerazioni meno violente (circa 4g contro i 6/7g che si potevano raggiungere in alcune fasi del rientro dell’Apollo).
Per lo stesso motivo, anche i carichi termici che agiranno sullo scudo della capsula saranno più bassi in ciascuna delle due decelerazioni rispetto a quelli di un rientro diretto. Con ridotte velocità di rientro (inferiori a 12 km/s), il contributo principale ai flussi di calore che investono la superficie della capsula sono dovuti alla componente convettiva della trasmissione di calore. Per proteggersi da temperature previste fino a 3000 K, la capsula sarà dotata di TPS ablativo che sarà realizzato in AVCOAT.
Tale materiale, una resina epossidica in matrice in fibra di vetro, era già stato utilizzato nelle missioni Apollo e, con opportune modifiche, sarà nuovamente impiegato anche per l’Orion.
Il sistema di paracadute
La fase finale del rientro si concluderà con il rilascio dei paracadute prima dello splashdown. Il sistema è dotato di un totale di 11 paracadute. I primi 3 verranno rilasciati a circa 8 km di quota, quando la capsula viaggia ancora a circa 500 km/h, per separare la copertura posteriore dal resto della capsula.
Pochi secondi dopo saranno gonfiati altri 2 paracadute che hanno il compito di stabilizzare e rallentare la capsula da 500 km/h a circa 210 km/h. Nelle fasi finali del rientro, a circa 3 km di quota, 3 paracadute pilota saranno usati per permettere il dispiegamento dei 3 paracadute principali (i più grandi in diametro), che faranno decelerare la capsula fino ai circa 30 Km/h dello splashdown.
Il test più importante di Artemis 1
Sebbene l’uomo sia già stato sulla Luna 50 anni fa e nonostante i progressi tecnologici, sbarcare sul nostro satellite e riuscire a ritornare a terra resta ancora un compito piuttosto complesso. Il tutto diventa ancora più difficile nel caso in cui si voglia creare un avamposto fisso sul suolo lunare. Per un programma prolungato e commerciale, c’è necessità che tutti i mezzi e le tecnologie abbiano gradi di sicurezza e affidabilità ben maggiori di quelli di Apollo. Artemis 1 rappresenta dunque una tappa fondamentale per poter riportare l’uomo sulla Luna e dare inizio all’intero programma.
La missione permetterà di testare e validare sul campo la tecnologia e le procedure per aprire le porte dell’esplorazione umana nel sistema solare. Il test permetterà di raccogliere dati altrimenti impossibili da ottenere con prove a terra, soprattutto per quanto riguarda le condizioni che la capsula Orion dovrà affrontare nella fase di rientro. Questi dati saranno poi analizzati e saranno fondamentali per apportare i correttivi necessari a migliorare le missioni future.
Il rientro corretto di Orion, non sarà quindi solo la conclusione di una missione verso la Luna, ma si tratta di un’obbiettivo primario dell’intera missione Artemis 1. Senza tornare a Terra in sicurezza, per ora non servirà a molto saper arrivare sulla Luna.
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