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Una nuova teoria per i dischi circumstellari

Un team di ricerca del Max Planck Institute ha individuato un meccanismo in grado di spiegare molte delle proprietà osservate nei dischi circumstellari di transizione. Tra gli ingredienti di questo processo ci sono anche i raggi X emessi dalla stella centrale.

Chiara De Piccoli di Chiara De Piccoli
Novembre 5, 2021
in Astronomia e astrofisica, Divulgazione, News, Scienza
Dischi circumstellari

Fotografie di diversi dischi circumstellari osservati, all'interno dei quali si stanno formando dei pianeti.

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I dischi circumstellari sono noti per essere il serbatoio di alimentazione dei pianeti. Essi nascono infatti dall’aggregazione della polvere e del gas che costituiscono il disco. Ma le componenti di queste strutture sono anche nutrimento per la stella attorno a cui si trovano. Sebbene negli ultimi anni, l’evoluzione di un disco circumstellare sia stata a grandi linee compresa, identificare il processo fisico dettagliato rimane un grande sfida.

Presso il Max Planck Institute for Astronomy (MPIA), un gruppo di ricerca ha proposto un nuovo modello teorico per spiegare la transizione da disco circumstellare a sistema planetario “pulito”, chiarendo alcuni passaggi apparentemente contraddittori. Intuitivamente, infatti, non è semplice spiegare come la presenza di un gap all’interno del disco giustifichi un continuo e lento accrescimento della stella centrale.

Come si forma un gap nel disco?

Con attività di accrescimento si intende il processo che alimenta la stella centrale con gas e polvere del disco che la circonda. La parte più esterna della struttura anulare rifornisce quella interna del materiale ceduto alla stella. La maggior parte dei dischi osservati grazie all’arrivo di potenti telescopi, sono caratterizzati da dei gap, regioni svuotate da gas e polveri. Per questa caratteristica vengono riconosciuti come dischi di transizione. Nella nuova teoria sviluppata dagli astronomi del MPIA, a creare questi vuoti non contribuisce solo la formazione planetaria, ma anche l’emissione di raggi X dalla stella centrale.

La radiazione emessa colpisce e scalda la superficie del disco, determinando la formazione di un vento solare che ne espelle le particelle allora ionizzate. Questo processo è noto col nome di fotoevaporazione. Una volta che il flusso di particelle espulse tramite il vento stellare è maggiore rispetto a quello proveniente dalle regioni esterne, inizia ad aprirsi un buco nel disco. Questo dovrebbe implicare la fine del rifornimento della parte interna del disco e la sua veloce dissolvenza, determinando la fine dell’accrescimento della stella. Ma non è ciò che si osserva sperimentalmente.

schema evoluzione disco di transizione
Visione schematica dell’evoluzione di un disco di transizione attorno a una stella di tipo solare. L’emissione a raggi X ionizza il gas del disco, che attraverso il processo di fotoevaporazione, viene disperso nello spazio esterno. A seguito di questo fenomeno, di forma un gap tra la parte interna del disco e quella esterna. Questa regione è nota col nome “zona morta” (dead zone) ed evita che il materiale che costituisce il disco finisca rapidamente nella stella centrale. Il processo descritto rende la sua evoluzione più longeva, aumentando inoltre l’attività di accrescimento della stella. Crediti: MPIA

L’influenza della dead zone

Per spiegare questa contraddizione è necessario individuare un processo che rallenti il flusso di particelle verso la stella centrale, rendendo più longeva la parte interna del disco. I ricercatori hanno preso in considerazione quella che viene chiamata dead zone, “zona morta”. Si tratta di una regione stabile del disco circumstellare dove il moto casuale del gas è ridotto rispetto alle altre costituenti del disco. L’attrito tra le particelle diventa trascurabile, permettendo la stabilizzazione della loro orbita.

L’influenza di questa regione è stata studiata attraverso delle simulazioni, eseguite da Matías Gárate, principale autore dello studio e scienziato presso il MPIA, e dai suoi collaboratori. Il modello di disco costruito tiene in considerazione l’emissione a raggi X della stella e diverse condizioni iniziali per la dead zone.

“Eravamo emozionati quando abbiamo visto i risultati. La grande maggioranza dei dischi di transizione simulati con un’ampia gamma di dimensioni del gap ha mantenuto rilevabile il flusso di accrescimento verso stelle di tipo solare.”

Commenta Gárate rispetto ai risultati ottenuti che dimostrano come la presenza della dead zone risulta fondamentale all’interno del processo di evoluzione.

I numeri non tornano

L’esito positivo e sorprendete delle simulazioni condotte porta con sé alcuni difetti. Infatti, sebbene i risultati qualitativamente corrispondono a ciò che i telescopi hanno osservato, le quantità sono ben diverse. Dalle osservazioni infatti, la percentuale di dischi di transizione in cui l’attività di accrescimento è terminata è pari al 3%. Tuttavia secondo le simulazioni, questo numero è dieci volte maggiore.

Questa discrepanza potrebbe essere dovuta a due fattori. Il primo, dalla visione semplificata delle simulazioni rispetto alla realtà. Infatti non tutti i possibili meccanismi di evoluzione del disco sono stati presi in considerazione. Il secondo invece, è relativo alle conclusioni tratte dalle osservazioni: potrebbero esserci più dischi senza accrescimento rispetto a quelli precedentemente teorizzati.

Alcuni enigmi rimangono

Lo studio sull’attività di accrescimento condotto dai ricercatori del MPIA si è focalizzato sul ruolo del gas. Tuttavia, le osservazioni dei dischi circumstellari sono state possibili grazie alla visualizzazione della distribuzione della polvere nelle lunghezze d’onda del millimetro. Questi grani si dispongono in strutture anulari attorno alla stella, formando dei dischi concentrici. L’immagine sintetica prodotta dalle simulazioni rappresenta un disco interno separato da un gap da un disco più esterno, similmente a quello osservato nelle immagini reali dei dischi di transizione.

confronto tra disco osservato e simulato
Confronto della distribuzione della polvere tra il disco di transizione CIDA1, osservato dall’interferometro ALMA (lunghezza d’onda 0.9mm), a sinistra, e l’immagine ottenuta dalle simulazioni compiute da Matías Gárate e i suoi collaboratori, a destra. Crediti: Pinilla et al./Gárate et al./MPIA

L’unico dettaglio a non tornare è la luminosità della polvere. Quella della distribuzione ottenuta al computer è più debole rispetto a quella reale. Probabilmente il disco sintetico possiede meno polvere rispetto alla realtà. Come spiega Gárate, questa discrepanza potrebbe derivare dal fatto che nel modello utilizzato non è stato considerato il processo di formazione dei pianeti.

Sebbene quindi, questa nuova teoria rappresenti un importante passo avanti nella comprensione dell’evoluzione dei dischi circumstellari, ci sono ancora degli enigmi da risolvere che il gruppo di ricerca continuerà a esplorare.

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Tags: ALMAdead zonedischi circumstellariEsopianetiformazione planetariafotoevaporazioneraggi Xsimulazioni

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