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Alla ricerca della vita: biosignatures e technosignatures con l’aiuto dell’IA

Antonio D'Isanto di Antonio D'Isanto
Aprile 4, 2023
in Approfondimento, Divulgazione, Esplorazione spaziale, News, Scienza
Igenuity su Marte

Il drone Igenuity su Marte, contenente un software preistallato per il riconoscimento di superfici planetarie. Lo stesso concetto può essere sfruttato per la ricerca di biosignatures. Credits: NASA/JPL-Caltech/ASU/MSSS

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La ricerca di tracce di vita nell’Universo è sicuramente una delle maggiori sfide che l’astronomia moderna si trova ad affrontare. Il progresso scientifico e tecnologico ci ha dotati di strumenti in grado di raccogliere sempre più dati, e di scandagliare il cielo con un dettaglio impensabile sino a pochi anni fa. Oramai, molti credono che la ricerca di potenziali “nuove Terre” non sia più una questione di “se” ma solo di “quando”.

Tuttavia non si tratta solo di capire dove cercare, ma anche cosa cercare. Per questo si parla sempre più di biosignatures, quei marcatori biologici che potrebbero costituire indizi della presenza, presente o passata, di forme di vita al di fuori del nostro pianeta.

Ci troviamo di fronte a un campo di ricerca relativamente giovane. Infatti, la misura di questi parametri richiede un livello di precisione estremo, consentito solo dagli strumenti di nuova generazione. Un esempio, in tal senso, è la caratterizzazione delle atmosfere degli esopianeti. È notizia di pochi giorni fa la misura della temperatura di TRAPPIST-1 b grazie alle osservazioni del James Webb.

Si tratta perciò di un settore in grande fermento, e anche questa volta, come accade ormai sempre più frequentemente in astrofisica, ci viene in aiuto un potente alleato: l’intelligenza artificiale.

La ricerca di biosignatures nel Sistema Solare

Un aspetto importante da tener presente è che nella ricerca di tracce di vita extraterrestre non bisogna trascurare il Sistema Solare. Certo, non ci aspettiamo di trovarci forme di vita avanzate. Tuttavia ci sono diversi candidati che potrebbero ospitare, o aver ospitato in passato, quanto meno forme elementari di vita microbica. Proprio su questo aspetto si focalizza una ricerca pubblicata in un recente articolo di Nature Astronomy, guidata da Kim Warren-Rhodes del SETI Institute.

In questo lavoro gli autori hanno elaborato un modello, basato sull’utilizzo di IA, per rilevare potenziali biosignatures. E ambienti adatti a semplici forme di vita su corpi del Sistema Solare, quali Marte o alcune delle lune ghiacciate dei pianeti esterni. L’idea di fondo è tutto sommato semplice: utilizzare dati raccolti in ambienti estremi sulla Terra per addestrare il modello, e utilizzarlo per effettuare previsioni al di fuori del nostro pianeta.

Il luogo scelto per la raccolta dati è il Salar de Pajonales, al confine tra l’altopiano cileno e il deserto di Atacama. Si tratta di una salina desertica, estremamente arida, posta a 3500 metri di quota. Un ambiente decisamente inospitale.

Salar de Tare deserto di Atacama
Deserto di Atacama. Credits: Wescottm

Qui il gruppo di ricercatori ha mappato rocce, cristalli e depositi di sale, combinando osservazioni satellitari a quelle aeree effettuate per mezzo di droni. Il modello si basa sull’ipotesi che gli ambienti estremi di queste zone siano simili a quelli che è possibile trovare ad esempio su Marte.

I ricercatori hanno inizialmente mappato il modo in cui forme di vita elementari si distribuiscono sul territorio. Utilizzando questa informazione come base di conoscenza, hanno poi utilizzato i dati aerei e satellitari per addestrare l’algoritmo di machine learning a riconoscere lo schema che sottende alla distribuzione ottenuta dalle osservazioni dirette ricavate sull’altopiano.

Convolutional Neural Networks

Nello specifico, si è deciso di utilizzare un modello basato sulle cosiddette Convolutional Neural Network (CNN). Si tratta di reti neurali molto potenti, composte da due parti principali.

La prima è in grado di ricevere in input delle immagini, dalle quali viene estratta automaticamente l’informazione, ovvero quelle che in gergo tecnico si chiamano features. In altre parole, parametri rappresentativi delle immagini fornite in ingresso. Si tratta di un’operazione che tradizionalmente in astronomia viene svolta “a mano”. La differenza fondamentale è che una CNN è in grado di estrarre in poco tempo non alcune decine di features, come potrebbe fare un essere umano, bensì migliaia o milioni. Ciò vuol dire utilizzare l’informazione originaria con un’efficienza ben maggiore.

La seconda parte di una CNN invece è costituita da una rete neurale classica, che riceve in input le features estratte dalla prima parte e le utilizza per effettuare una previsione. A questo risultato viene associato un valore noto, utilizzato come riferimento. Ciò vuol dire che l’algoritmo lavora in modalità “supervisionata”. La rete impara a calcolare il medesimo valore in uscita, confrontandolo con quello fornito in modo da migliorare sempre più le proprie performance, aggiustando i propri parametri interni attraverso cicli ripetuti. In tal modo, sarà poi possibile utilizzare la rete addestrata con dati mai visti prima e per i quali non si hanno a disposizione i target.

Di seguito, un video che mostra i vari passaggi della raccolta dati. Credits: M. Phillips

Utilizzando questo sistema, gli autori dell’articolo sono stati in grado di identificare biosignatures con una precisione che varia tra il 56,9% e l’87,5%, rispetto al 10% (al massimo) che si ottiene con una ricerca casuale. Per di più, è possibile ridurre l’area di ricerca del 97%. In effetti le specie microbiche presenti rilasciano dei pigmenti che, di fatto, costituiscono proprio quelle biosignatures che il team di ricerca sperava di rilevare e che in effetti la CNN è riuscita a identificare con buona precisione. Tutto ciò grazie a una base dati costituita da 7765 immagini raccolte e 1154 campioni.

Ovviamente, lo studio è più che altro dimostrativo, perché l’obiettivo finale sarebbe di installare un software pre-addestrato a bordo di droni inviati a ispezionare le superfici planetarie. Un po’ come è stato fatto con Ingenuity su Marte.

Dalle biosignatures alle technosignatures

Il lavoro del gruppo del SETI costituisce un ottimo esempio nella ricerca di biosignatures. Quest’ultimo è forse il filone principale nella ricerca di vita extraterrestre, ma in realtà non è l’unico. Le attività biologiche lasciano sicuramente delle tracce, che possono essere identificate attraverso opportuni marcatori, tuttavia lo stesso si può dire per attività di tipo tecnologico.

A dirla tutta, quelle che vengono definite technosignatures potrebbero risultare persino più evidenti delle biosignatures. Un esempio lampante, in questo senso, è lo stesso SETI. L’istituto infatti è nato proprio grazie al programma Search for Extra-Terrestrial Intelligence (da qui l’acronimo), volto alla ricerca di segnali radio provenienti da civiltà intelligenti. Purtroppo, finora il programma non ha fornito risultati concreti, ma la ricerca prosegue.

A dimostrazione dell’attenzione della comunità scientifica su questo tema, nel settembre del 2018 si è svolto un workshop organizzato dalla NASA. Lo scopo era proprio discutere sullo stato dell’arte e sugli sviluppi futuri nel campo della ricerca di technosignatures. Il settore è vasto, così come il report pubblicato a conclusione del meeting.

Alcuni dei temi trattati sono più ovvi, come appunto la ricerca di segnali radio o in altre bande dello spettro. Altri invece possono sembrare più spostati verso la fantascienza. Ne è un esempio la ricerca di megastrutture, quali le sfere di Dyson, strutture di pannelli solari posti attorno a delle stelle allo scopo di raccoglierne l’energia irradiata. Costruzioni di questo tipo potrebbero essere rilevabili utilizzando tecniche simili a quella del transito, normalmente utilizzato per la ricerca di pianeta extrasolari.

Sfera di Dyson
Rappresentazione artistica di una sfera di Dyson. Credits: Kevin Gill

Un aspetto ritenuto centrale nel corso workshop è proprio l’utilizzo di tecniche di data mining e machine learning. Non si tratta solo di aprire la strada all’analisi delle osservazioni ancora in divenire, bensì di ricercare nuove scoperte che potrebbero, potenzialmente, nascondersi nei dati già esistenti.

A dimostrazione del fermento esistente sul tema, nel maggio del 2019 si è svolto un nuovo workshop, presso il Caltech di Pasadena, dedicato esplicitamente alla ricerca di technosignatures per mezzo di tecniche “data-driven”. La presenza di nomi illustri, quali il Prof. Giuseppe Longo dell’Università Federico II di Napoli e il Prof. George Djorgovski del Caltech, è indicativa di quanto sia seria la questione.

Dove cercare: il migliore dei mondi possibili

Abbiamo visto che la ricerca di biosignatures, o di technosignatures, si inquadra nel settore del cosa cercare. Ritornando però al dove cercare, notiamo che anche da questo punto di vista potremmo fare meglio.

In un articolo pubblicato nel 2020 a firma di un team guidato da Dirk Schulze-Makuch, astrobiologo presso la Technical University di Berlino, si analizza la possibilità che il pianeta Terra potrebbe non essere il miglior pianeta possibile per la vita. Altri pianeti in realtà potrebbero trovarsi in condizioni ambientali ed evolutive migliori del nostro, tali da favorire enormemente lo sviluppo di forme biologiche.

Schulze-Makuch definisce questi pianeti superabitabili. Il problema è che finora abbiamo sempre cercato tracce di vita basando i nostri studi sul modello terrestre. Ciò potrebbe evidentemente costituire un bias, di fatto introducendo quello che in astronomia si chiama effetto di selezione: non vediamo qualcosa non perché questa non ci sia, ma piuttosto perché le limitazioni da noi stessi introdotte ci impediscono di rilevarla.

Potenzialmente, questo problema potrebbe caratterizzare anche il lavoro del team del SETI, dato che il modello di machine learning è stato addestrato prendendo a modello, per l’appunto, dati terrestri. E non bisogna mai dimenticare che l’IA che utilizziamo oggi può generalizzare solo entro il perimetro dei dati che le sono stati forniti durante l’addestramento.

Nel suo articolo, Schulze-Makuch elenca i criteri che potrebbero definire un pianeta come superabitabile: una massa circa 1,5 volte quella terrestre, la presenza di una luna e di un campo magnetico, una stella ospite più piccola e longeva del Sole (con ogni probabilità una classe K).

Gli autori presentano anche una lista con un paio di dozzine di possibili candidati, a cui porre attenzione in futuro con strumenti attuali come il James Webb o con telescopi di prossima generazione, quali l’Extremely Large Telescope in costruzione.

Insomma, la caccia è appena cominciata.

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Tags: astrobiologiabiosignaturesIAIntelligenza artificialeMachine LearningSETIvita extraterrestre

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