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Secondo un nuovo modello cosmologico, l’Universo avrebbe 26.7 miliardi di anni

Mariasole Maglione di Mariasole Maglione
Luglio 14, 2023
in Astronomia e astrofisica, News, Scienza
JWST survey galassie primordiali (1)

Immagine del JWST Advanced Deep Extragalactic Survey (JADES) effettuato con il James Webb, che mostra una porzione di un'area di cielo nota come GOODS-South in cui sono visibili più di 45 mila galassie, molte delle quali esistenti quando l'Universo aveva meno di 600 milioni di anni. Credits: NASA, ESA, CSA, Brant Robertson (UC Santa Cruz), Ben Johnson (CfA), Sandro Tacchella (Cambridge), Marcia Rieke (Università dell'Arizona), Daniel Eisenstein (CfA)

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Per molto tempo, gli scienziati hanno calcolato l’età dell’Universo misurando il tempo trascorso da un ipotetico Big Bang iniziale, e studiando le galassie più antiche che riuscivano a individuare. Nel 2021 siamo giunti alla stima più precisa finora che, concorde con il modello cosmologico standard “Lambda-CDM”, dice che l’Universo ha 13.797 miliardi di anni.

Molte osservazioni sperimentali, però, sfidano questo risultato. Innanzitutto, esistono stelle che sembrano più vecchie dell’intero Universo (un esempio è Matusalemme, che sembrerebbe avere 14.5 miliardi di anni). E ora, con il telescopio spaziale James Webb, abbiamo trovato galassie già formate e mature ad appena 3-400 milioni di anni dopo il Big Bang, le cui dimensioni e masse sono in pieno disaccordo con le previsioni che i modelli attuali permettono di fare. Le hanno chiamate “galassie impossibili”, oggetti primordiali a cui ancora non riusciamo a dare una spiegazione.

Tuttavia uno studio recente, portato avanti dal professor Rajendra Gupta dell’Università di Ottawa, una spiegazione potrebbe averla. Prendendo in considerazione queste forti incoerenze e alcuni parametri cosmologici, Gupta ha costruito un nuovo modello secondo cui l’Universo di anni ne avrebbe 26.7 miliardi, ovvero il doppio rispetto alla stima attuale.

Scopri tutti i dettagli della costruzione e gli obiettivi scientifici del telescopio spaziale Euclid nella prima Guida di Astrospace –> La guida completa al telescopio Euclid.

La teoria della “luce stanca”

Sappiamo che le galassie lontane, così come tutti gli altri oggetti cosmici distanti, sono soggette a un fenomeno di spostamento verso il rosso delle lunghezze d’onda, noto come redshift. È causato dall’espansione dell’Universo, e provoca un vero e proprio allungamento della radiazione proveniente dal cosmo lontano, un po’ come se essa si “stirasse” sempre di più, più lontano guardiamo.

Come spiegazione alternativa a questo legame tra il redshift e la distanza spazio-temporale, nel 1929 Fritz Zwicky propose una teoria cosmologica detta della luce stanca (tired light in inglese). Secondo questa teoria, i fotoni di luce perderebbero lentamente energia mentre percorrono grandi distanze in un universo statico. Questo a causa dell’interazione con la materia o con altri fotoni, o per qualche meccanismo fisico ancora sconosciuto. E poiché una diminuzione di energia corrisponde a un aumento della lunghezza d’onda della luce, l’effetto produrrebbe un redshift nelle linee degli spettri elettromagnetici di sorgenti lontane, che aumenta proporzionalmente rispetto alla distanza della sorgente.

Luce stanca
Secondo la teoria della luce stanca, dato un universo statico e piatto, i fotoni al secondo ricevuti da un oggetto diminuiscono proporzionalmente al quadrato della sua distanza, così come l’area apparente dell’oggetto, quindi i fotoni ricevuti per superficie per unità di tempo sarebbero costanti, indipendentemente dalla distanza, anche se la luminosità della superficie è ridotta a causa del redshift.

Tuttavia, se per un singolo fotone la luce stanca è indistinguibile dall’ipotesi di espansione dell’Universo, la teoria di Zwicky prevede meccanismi differenti a seconda del contesto. E le sue implicazioni sono in conflitto con le osservazioni, per esempio con la presenza della radiazione cosmica di fondo (Cosmic Microwave Background, CMB), definita come “l’eco del Big Bang”. Per questo, la maggior parte dei fisici e degli astronomi accetta le conclusioni di vari studi secondo cui la teoria della luce stanca non spiega (o non può spiegare) i redshift misurati dalle osservazioni.

Il modello a costanti di disaccoppiamento variabili

Gupta ha preso in considerazione la teoria di Zwicky e le osservazioni dello spazio profondo effettuate con il Webb. I modelli che sfruttano la luce stanca sono effettivamente conformi ai dati di Webb. Tuttavia, continuano a non andare d’accordo con molte altre osservazioni.

Allora, Gupta ha tirato in ballo un’ipotesi di Paul Dirac, riguardante l’evoluzione delle costanti di disaccoppiamento. Si tratta di costanti fisiche fondamentali, che regolano le interazioni tra le particelle. Secondo Dirac, queste costanti potrebbero essere variate nel tempo. Gupta ha scoperto che lasciando evolvere queste costanti, rendendole in gergo covarianti, è possibile estendere il periodo di formazione delle prime galassie osservate da Webb ad alti redshift da poche centinaia di milioni di anni a diversi miliardi di anni.

Il modello sviluppato da Gupta, che sfrutta costanti di disaccoppiamento variabili ed è infatti chiamato modello CCC (Covarying Coupling Constants), allunga l’età dell’Universo a 26.7 miliardi di anni. Un’età che darebbe abbastanza tempo a galassie massicce di formarsi. Dando (finalmente) una spiegazione alle galassie “impossibili” rilevate da Webb.

traguardo Webb
Il JWST Advanced Deep Extragalactic Survey (JADES) si è concentrato sull’area all’interno e intorno al Il campo ultraprofondo del telescopio spaziale Hubble. Utilizzando lo strumento NIRCam di Webb, gli scienziati hanno osservato il campo in nove diversi intervalli di lunghezze d’onda dell’infrarosso. Quattro delle galassie studiate risalgono a meno di 400 milioni di anni dopo il Big Bang. Credits: NASA, ESA, CSA, STScI, M. Zamani (ESA/Webb) e L. Hustak (STScI)

Re-interpretando il redshift

Secondo Gupta, sarebbe possibile re-interpretare il redshift come un fenomeno ibrido. Cioè, all’interno di un modello che include il concetto di luce stanca nell’idea di Universo in espansione. Il ricercatore e i suoi colleghi hanno ideato un secondo modello, chiamato CCC+TL (Covarying Coupling Constants + Tired Light). Questo costituisce un vero e proprio ibrido tra la teoria di Zwicky e la possibilità che l’ipotesi di Dirac sulle costanti di disaccoppiamento fosse giusta.

Sfruttando questo modello, Gupta ha dimostrato che le osservazioni di Webb otterrebbero facile spiegazione, in un Universo di 26.7 miliardi di anni in cui la luce viene allungata nel tempo e nello spazio ma anche a causa della perdita di energia.

Insomma, l’Universo potrebbe essere molto più antico di quanto pensassimo. Un’idea che rivoluzionerebbe completamente non solo il modello cosmologico standard, ma anche tutte le teorie a esso collegate, e l’interpretazione dei risultati sperimentali. Al tempo stesso, questo potrebbe far luce su alcuni dei più grandi misteri del cosmo. O forse no?

Qui l’abstract dello studio, pubblicato su Monthly Notices of the Royal Astronomical Society.

Tags: cosmologiacostante cosmologicaLambda CDMtired lightuniversouniverso primordiale

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