Una delle sfide più grandi che abbiamo affrontato nello spazio è stata la ricerca e la produzione di energia elettrica. Nonostante lo spazio sia una delle attività cardine del ventunesimo secolo, non è però la prima volta che affrontiamo questo tipo di ricerca.
L’umanità ha esperienza dell’energia elettrica da lungo tempo: Talete, filosofo greco del 600 a.C. analizzava il comportamento dell’elettrostatica su un filo di resina fossile, l’ambra. Per non parlare dei fulmini, paurosi e affascinanti a tal punto da ispirare la creazione di divinità come Zeus o Thor. Per trovare un esempio non occidentale di studio primitivo dell’energia elettrica, si possono citare le Batterie di Baghdad, risalenti al 250 a.C., vasetti di terracotta contenenti bobine di rame avvolte intorno al ferro che si suppone servissero per depositare lamine di metallo decoratore su superfici particolari.
Fu però solo nella seconda metà del 1800 che i grandi fisici i cui nomi riempiono i libri di scuola (Volta, Edison, Maxwell, Tesla, Faraday…) riuscirono a decodificare in maniera matematica la fisica dietro l’elettromagnetismo e, successivamente, a tirarne fuori qualcosa che non fossero solo formule o esplosioni. Da quel momento, la nostra capacità di comprendere il fenomeno e utilizzarlo è aumentata esponenzialmente e con essa pure il grado di benessere della nostra società. L’utilizzo dell’elettricità ci garantisce quasi la totalità dei servizi di cui oggi usufruiamo e se un domani le leggi di Maxwell smettessero di funzionare saremmo tutti in grossi guai.
I primi test nello spazio
È allora normale che quando si iniziò a discutere di sonde nello spazio nei primi anni Cinquanta, la NASA ebbe il bisogno di aprire numerosi studi su come procacciare nello spazio l’energia elettrica necessaria a far funzionare tutto ciò che si trova nel satellite. La soluzione, comunque, risiede nel processo di conversione dell’energia; cioè portarsi da casa un tipo di energia (chimica, atomica) oppure prenderla dall’ambiente (solare) e convertirla in energia elettrica.
All’inizio la ricerca fu molto basilare, l’obiettivo era avere qualche Watt per un limitato periodo di tempo… Ma con il proseguire della ricerca spaziale le esigenze si fecero sempre più alte e le missioni sempre più audaci. Ad oggi il problema della conversione dell’energia è di enorme attualità e non solo nel settore spaziale. L’attuale crisi ambientale ci sta ponendo di fronte l’esigenza di ripensare le nostre linee di alimentazione, conversione e creazione dell’energia elettrica e diverse soluzioni potrebbero arrivare ancora una volta dallo spazio.
Lo schema qui sopra può dare un’idea dei processi che siamo in grado di mettere in atto nello spazio. Bisogna tuttavia notare che ogni soluzione di conversione si presta a un determinato tipo di missione e sta all’ingegnere elettrico, insieme all’ingegnere di sistema, decidere qual è la soluzione migliore.
Per convertire l’energia solare in elettrica si utilizzano delle celle solari, oppure per convertirla in energia termica, delle lenti concave. Dall’energia atomica, tramite degli RTG, si può generare dell’energia termica, e se montiamo delle termocoppie possiamo passare all’energia elettrica, tramite conversione termoelettrica. Infine, con le fuel cells, le batterie, trasformiamo lo squilibrio chimico in energia elettrica.
Qualche esempio pratico
Ha senso usare un campo di celle fotovoltaiche per una missione in orbita intorno a Nettuno? Ovviamente no, perché, data la distanza e la conseguente poca energia del Sole, riceverebbero 1.5 Watt per metro quadro, cioè circa 1/900 di quanto ne riceverebbero sulla Terra… Ciò vuol dire che per alimentare una data sonda sulla Terra basterebbe 1 metro quadro di celle, mentre su Nettuno servirebbero 900 metri quadri. Decisamente poco pratico. Ha senso applicare un RTG su un CubeSat? Beh ovviamente no, considerando che un RTG è grande almeno quanto il CubeSat stesso. Però l’RTG, che funziona tramite isotopi radioattivi, potrebbe andare benissimo per la sonda diretta verso Nettuno!
In questo grafico Si può notare come la scelta della tipologia di fonte energetica si svolga sostanzialmente lungo quattro gradi di libertà:
- Vita utile della sonda.
- La potenza richiesta.
- Potenza specifica prodotta su chilogrammi.
- Potenza specifica prodotta su dollaro.
A voler essere pignoli sarebbe necessaria anche la potenza specifica prodotta su metro cubo di ingombro, più un’altra serie di parametri minori legati alla complessità del convertitore di energia come l’isolamento termico e vibrazionale. Questo grafico è estremamente potente, perché avendo in ingresso i vincoli e le variabili di missione fornisce in uscita la soluzione di conversione più conveniente.
Convertire l’energia
I convertitori di energia sono detti sorgente primaria e a essi viene quasi sempre associata una sorgente secondaria (come le batterie) per i periodi di enorme attività o quando la sorgente primaria non può produrre energia (per esempio quando i pannelli solari sono in ombra). All’esterno delle sorgenti o prima dei carichi che vanno alimentati vi sono poi i dispositivi di controllo e regolazione della potenza che si occupano di tenere un flusso di potenza (quindi un voltaggio e/o un’intensità di corrente) adeguati al carico che stanno alimentando.
Infine, ciò che collega sorgenti, carichi e dispositivi di regolazione è l’architettura di distribuzione, comprendente cavi, cablaggi e dispositivi di protezione, in effetti non dissimile dal vostro impianto elettrico casalingo. Si conclude il primo articolo di questa serie, che ogni mercoledì mattina, per sei settimane andrà a esplorare le diverse soluzioni tecniche per la produzione e conversione di energia elettrica nello spazio.
Energia Elettrica nello spazio è una rubrica in sei articoli dedicata ai metodi di produzione e conversione dell’energia nello spazio, ideata e scritta da Mattia Ghedin.