La mattina del 28 Gennaio 1986, alle 11.38 ora della Florida, lo Space Shuttle Challenger si staccò da terra per la decima ed ultima volta. Spinto dai tre motori RS-25 e dai due booster laterali, in grado di generare complessivamente 3500 tonnellate di spinta, la navicella si diresse come da procedura verso est, sopra l’Oceano Atlantico.
Contemporaneamente, i computer di bordo diedero il via al “programma di rollio”, una rotazione attorno all’asse verticale per posizionare la navicella al sicuro nella scia dell’enorme serbatoio esterno. Tra i vantaggi di questa manovra, che possiamo vedere nel seguente video, c’è la capacità di portare in orbita un carico maggiore e migliori comunicazioni con il centro di controllo sulla Terra.
L’esplosione
Poco meno di un minuto dopo il liftoff, il veicolo sperimentò le raffiche di vento trasversale più intense mai registrate fino ad allora durante un lancio dello Shuttle. Queste, come vedremo a breve, ebbero un ruolo fondamentale nei tragici eventi di quel giorno. I computer di bordo intervennero, direzionando la spinta dei motori per controbilanciare le deviazioni. A 64 secondi dal lancio, quando il veicolo uscì dalla zona interessata dalle turbolenze, le raffiche cessarono.
Nove secondi dopo, in un batter d’occhio, la navicella perse l’assetto e si disintegrò sotto l’effetto delle intensissime forze aerodinamiche. Stava viaggiando a Mach 1.92 a 14 kilometri di quota.
L’equipaggio, formato dal comandante Francis Scobee, dal pilota Michael Smith, dagli specialisti di missione Ronald McNair, Ellison Onizuka, Judith Resnik e dagli specialisti di carico utile Gregory Jarvis e Christa McAuliffe, riuscì a malapena a realizzare cosa stesse accadendo. Christa McAuliffe era un’insegnante, la prima selezionata nell’ambito del programma “Insegnanti nello Spazio”. Quel giorno, ad assistere al lancio, vi erano i genitori e gli allievi.
La Commissione Rogers
Venne immediatamente istituita una commissione presidenziale d’inchiesta, passata alla storia con il nome di commissione Rogers, cui contribuirono personaggi del calibro di Neil Armstrong, Richard Feynman e Chuck Yeager. Gli strumenti a loro disposizione furono sostanzialmente due: la telemetria e i filmati del volo. La causa del disastro si trovava lì dentro, in attesa di essere trovata.
Il primo indizio apparve in un video del decollo, ripreso direttamente dalla piattaforma di lancio. Un fotogramma, riferito all’istante T0 + 0.678 secondi, immortalò uno sbuffo di fumo provenire dal booster di propellente solido di destra (in gergo SRB, Solid Rocket Booster) e diretto verso il serbatoio esterno, pieno di idrogeno ed ossigeno liquidi.
Il colore particolarmente scuro del fumo ne suggerì l’origine: una guarnizione circolare detta O-ring, presente nella sezione inferiore dell’SRB, stava bruciando a contatto con i gas a 2700°C generatisi dalla combustione del propellente solido. Gli ossidi di alluminio prodotti della combustione, a contatto con l’ambiente esterno, solidificarono in meno di tre secondi, sigillando la perdita.
La pezza di ossidi di alluminio resistette fino a T0 + 58 secondi, quando si ruppe per effetto delle vibrazioni indotte sull’SRB dalle fortissime raffiche di vento. Si originò una fiammata, testimoniata nella telemetria da un calo di pressione proprio nell’SRB di destra. I gas non stavano più uscendo solo dall’ugello, verso il basso, ma anche lateralmente, verso il serbatoio esterno.
Fu valutato che, se il Challenger non avesse incontrato raffiche così forti, la sigillatura temporanea avrebbe potuto resistere fino al distacco dei booster, garantendo al Challenger un corretto e sicuro inserimento in orbita. La fiammata durò per sei secondi, un tempo sufficiente a bucare il serbatoio esterno in corrispondenza dell’idrogeno liquido. Un cambio di intensità e di colore della fiammata testimoniarono la fuoriuscita del combustibile dal serbatoio esterno.
Lo Space Shuttle si stava lentamente disfacendo, pezzo dopo pezzo.
La rottura catastrofica si ebbe a T0 + 72 secondi, quando cedette l’ancoraggio tra il booster di destra ed il serbatoio esterno. Il primo impattò sul secondo, dando immediatamente fuoco a tutto l’idrogeno liquido ancora presente all’interno. Poco più di un secondo dopo toccò all’ossigeno liquido. La navicella venne inglobata nell’esplosione, ma non esplose. La perdita d’assetto la espose ad intensissime forze aerodinamiche che, quasi istantaneamente, la fecero a pezzi.
La causa primaria: il freddo
Restava da capire come mai l’O-ring avesse ceduto, lasciando strada libera ai gas incandescenti. Come appurò la commissione Rogers, il disastro era da imputare alle temperature particolarmente rigide nei giorni immediatamente precedenti il lancio. Le proprietà meccaniche delle guarnizioni in uso sugli SRB erano garantite fino ad una temperatura di 10°C. La mattina del 28 Gennaio la colonnina di mercurio segnava 2°C. Data l’enorme quantità di ghiaccio presente sul pad nelle prime ore del giorno, è ragionevole assumere che durante la notte fosse scesa ben al di sotto dello zero.
Non è da sottovalutare nemmeno il fatto che il lancio fosse inizialmente programmato per il 22 Gennaio, ma ripetuti rinvii condussero alla fatidica mattina del 28. Il veicolo rimase dunque esposto per diversi giorni a temperature inferiori a quelle per cui alcuni suoi componenti erano stati certificati, guarnizioni in primis. Le temperature erano state inferiori alla cosiddetta “temperatura di transizione vetrosa”, al di sotto della quale un materiale elastico e flessibile diventa rigido e fragile.
Le conseguenze
L’evento ebbe naturalmente un enorme impatto sull’opinione pubblica. Si stima che circa il 17% degli americani stesse assistendo al lancio in diretta televisiva. Dopo venticinque anni di voli spaziali umani, la NASA perse per la prima volta un astronauta in volo, pagando un prezzo altissimo: sette vite umane. L’unica tragedia spaziale a scuotere gli USA fino ad allora fu l’Apollo 1, avvenuta esattamente diciannove anni prima.
La commissione Rogers fece emergere come la NASA, all’epoca, fosse un groviglio di dipartimenti che dialogavano poco tra loro. Questo si rifletteva anche nei rapporti con i fornitori, in questo caso Morton Thiokol, responsabile della produzione dei booster. Il problema alle guarnizioni era noto, era già stato notato in molte analisi post volo, ma fu sempre sottovalutato.
Un altro elemento, che certamente contribuì alla tragedia del Challenger fu la cosiddetta “febbre da lancio”.
Basti dire che Christa McAuliffe avrebbe dovuto tenere una lezione dallo spazio nel quarto giorno di missione, che sarebbe caduto di venerdì se lo Shuttle fosse decollato di martedì (come avvenne). Un solo giorno di ritardo avrebbe visto le classi vuote durante la prima lezione dallo spazio: un’enorme perdità di visibilità per la NASA.
Lo Shuttle alla resa dei conti
In cinque anni di programma Shuttle, la NASA riuscì a lanciare venticinque missioni: cinque all’anno, contro le cinquanta promesse durante la fase di progettazione della navicella. Da tempo, ormai, lanciare in orario era diventato più importante che lanciare in sicurezza.
Dunque, nonostante la causa scatenante fu di tipo tecnico, ovvero la guarnizione indurita dal freddo, la commissione Rogers appurò che la vera radice del problema risiedeva nella cultura stessa della NASA all’epoca dei fatti.
L’agenzia spaziale imparò a caro prezzo a non dare più nulla per scontato. Ventiquattro lanci di successo di fila non davano la certezza assoluta che il venticinquesimo avrebbe avuto esito positivo.
Lo Shuttle venne totalmente ricertificato, processo che richiese trentadue mesi.
Riprese a volare il 29 Settembre 1988, trentadue mesi dopo, con la navicella Discovery in una missione denominata “Ritorno al Volo”. Nonostante tutto, l’umano desiderio di conoscenza ed esplorazione non fu messo a tacere. Perché, come disse il presidente Reagan la sera della tragedia “l’equipaggio del Challenger ci stava portando nel futuro, e noi continueremo a seguirli”.
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