Questo approfondimento è realizzato da Odilia Coi e Emilio Fazzoletto.
Il livello di maturazione della tecnologia blockchain sta crescendo di pari passo alla consapevolezza che delle opportunità e dei casi d’uso che questa porta con sè, oltre a quelli legati al mondo delle criptovalute.
Dopo una prima generazione nata col Bitcoin, e una seconda segnata da Ethereum, i più recenti sviluppi della blockchain mirano a risolvere (con crescente successo) il problema dell’eccessivo consumo energetico, della scalabilità e dell’interoperabilità.
Numerosi esempi, dai micro-bonifici internazionali alla verifica di ogni step nella lavorazione di un prodotto, mostrano come la blockchain abbia il potenziale di migliorare e rendere più inclusivi ed efficienti non solo il mondo della finanza, ma anche una vasta maggioranza di settori industriali, ad esempio monitorandone la supply chain.
Il mondo post-COVID ha evidenziato la fragilità della logistica mondiale in numerosi settori e, in diversi scenari geopolitici, da quello Ucraino alla questione Taiwan, il processo di globalizzazione ha mostrato un’inversione di tendenza. In questo contesto la blockchain potrebbe alleviare alcune delle criticità emerse in questi ultimi anni, permettendo la crescita e la sostenibilità d’importanti catene di approvvigionamento, nonostante il contesto sfidante.
Anche il settore educativo, il real estate e l’arte sono stati soggetti a interessanti sperimentazioni con l’erogazione, rispettivamente, di diplomi [1], certificati di possedimento [2] e diritti d’autore [3], in formato di “digital asset”, ovvero in termini di dati e transizioni registrati su blockchain.
Affidabilità, immutabilità e trasparenza
Probabilmente non è una casualità che il paper “Bitcoin: un sistema di moneta elettronica peer to peer” fu pubblicato per la prima volta a fine 2008, dopo che la severa crisi economica aveva letteralmente spazzato via la fiducia nelle istituzioni finanziarie. La blockchain era già lì, anche se mai direttamente nominata nel famoso articolo, essendo, di fatto, il complesso meccanismo crittografico che rendeva possibile la prima criptovaluta della storia. Tuttavia è solo nel 2011 che, con la nascita di Ethereum, un nuovo layer di possibilità viene aggiunto alla blockchain tramite l’implementazione degli smart contract.
Questi, non sono altro che linee di codice che, con la loro struttura if-then, rendono automatico e trasparente l’esecuzione di un accordo tra parti all’avverarsi di specifiche condizioni precedentemente concordate, evitando così la possibilità di dispute. Infatti, qualsiasi codice memorizzato sulla blockchain è intrinsecamente non modificabile e dunque protetto da cancellazione, manomissione e revisione.

Conseguentemente, le parti coinvolte non necessitano di un rapporto di fiducia reciproca e neppure di una terza parte di fiducia (a trusted third-party, rappresentato nella figura poco sopra) essendo il protocollo blockchain il garante dell’esecuzione. Per questo motivo, si vede spesso il sostantivo blockchain associato all’aggettivo trustless, a sottolineare come diversi attori e stakeholders stipulando uno smart contract si pongano al di sopra del problema della fiducia e/o della reciproca reputazione. In aggiunta, l’eliminazione di intermediari ha come conseguenza una notevole riduzione dei costi e dei tempi di gestione dell’intero processo. La sicurezza è garantita dal fatto che ogni accordo, o pagamento, registrato sulla blockchain porta con sé una firma digitale che può essere identificata e convalidata solo dal vero destinatario della transizione poiché in possesso della chiave di criptaggio.
Facendo un’analogia con qualcosa di familiare, potremmo dire che la blockchain è un database immutabile distribuito su molteplici nodi, ciascuno dei quali possiede una copia aggiornata dei dati. Questi nodi non sono altro che computer in un peer to peer network sui quali viene eseguito il software specifico di quella blockchain, senza la presenza di un’autorità centrale. A differenza di un tradizionale database però, affinché una nuova transizione sia memorizzata in un registro, la blockchain richiede il consenso di più del 50% del network (questo numero può abbassarsi sino al 33% negli ultimi e più sofisticati protocolli di consenso).
I protocolli che rendono possibile la blockchain sono algoritmi crittografici che collegano ogni blocco di dati al precedente, mediante l’uso di funzioni di hashing che hanno anche il compito di snellire il “peso” della memorizzazione dei dati. Questa connessione tra output di un blocco e input del successivo crea la catena che rende tutte le transazioni memorizzate su di essa immutabili e verificabili. Una qualsiasi modifica su una transizione di un blocco invaliderebbe tutti i blocchi successivi (perche ne modificherebbe l’hash) e porterebbe a una mancata corrispondenza con tutte le altre copie della stessa catena di transazioni memorizzate su migliaia di nodi distribuiti su altrettanti computer.
La crittografia, fondamenta della blockchain, è anche alla base della generazione di coppie di chiavi pubbliche/private, timestamps e generazioni di indirizzi quali i wallets. Essendo la generazione di numeri casuali il principio ultimo su cui si regge la crittografia, appare chiaro che questa è quindi tanto forte quanto la casualità che la supporta. Ecco allora che la generazione casuale di numeri si accompagna alla possibilità di una vulnerabilità della blockchain.
Difatti, la maggior parte dei programmi odierni si affida a dei software per simulare la casualità nelle chiavi digitali. Tuttavia, il design stesso di questi generatori di numeri casuali, nei quali la sequenza prodotta è determinata, in ultima analisi, dal valore iniziale (seed), rende questi sistemi “casuali” in qualche modo prevedibili. E’ un fatto che i sistemi informatici malevoli stiano diventando sempre più bravi a trovare schemi nei numeri generati (non così) “casualmente”.
(La blockchain) alla ricerca di una crittografia a prova di bomba
Si viene quindi a delineare un quadro di come la problematicità centrale legata alla blockchain sia proprio la sicurezza di questi protocolli, conditio sine qua non della sua immutabilità a affidabilità, ovvero condizione di esistenza della stessa.
Lo Spazio può, in questo senso, venire in aiuto della blockchain offrendo un luogo fisicamente inaccessibile. Basti pensare ai quanti studi nell’ambito dei sistemi integrati hanno mirato, negli ultimi anni, a trovare una soluzione contro i cosiddetti side channel attacks. Questo tipo di minaccia alla sicurezza dei sistemi embedded si articola principalmente attraverso un’acquisizione di tracce (leaks) da canali laterali, il rilevamento e l’estrazione di modelli crittografici grazie all’ elaborazione di tali tracce e, infine, il recupero di informazioni sensibili, sino alle chiavi private. Le perdite tipiche sono il tempo di calcolo dell’operazione crittografica, il consumo energetico del dispositivo o le radiazioni elettromagnetiche emesse dal chip. Se, in alcuni casi, le informazioni segrete possono essere estratte tramite una perdita fisica da una sola operazione crittografica, più spesso, invece, l’aggressore ha bisogno di registrare le perdite fisiche di diverse operazioni, e applicare poi un trattamento statistico a queste registrazioni.
Conseguentemente, lontano da vettori di attacco, l’orbita bassa costituisce una zona affidabile dove possono essere generati timestamp, firme digitali e chiavi.
A tal proposito, l’anno 2023 si è aperto con il lancio da parte di Space X di CryptoSat 2 figlio dell’omonima startup [4]. Il modulo a vocazione crittografica è stato lanciato all’interno della missione Transporter 6, decollata dalla stazione spaziale di Cape Canaveral il 3 gennaio.
Un’altra pietra miliare era già stata allineata nel marzo 2022 da Space Chain, con la prima dimostrazione tecnologica di hardware blockchain sulla Stazione Spaziale Internazionale [5]. Si tratta del terzo payload blockchain lanciato nello spazio da SpaceChain negli ultimi due anni, che ha dimostrato la ricezione, l’autorizzazione e la ritrasmissione di transazioni blockchain, creando transazioni che richiedono firme multiple (approvazioni) per essere completate, aumentando la sicurezza dell’operazione.
(Lo spazio) alla ricerca di una governance e di fondi
Se fino a questo punto abbiamo visto come lo Spazio può dimostrarsi utile per applicazioni che sfruttano la blockchain, rendendo inaccessibile la macchina che genera la crittografia, vediamo ora come la blockchain potrebbe risolvere alcune delle grandi sfide ancora aperte nel settore spaziale.
Di fatto, gli smart contract e le applicazioni distribuite eliminando la presenza di terze parti, mettono in contatto diretto offerta e domanda, venditori e compratori, ma offrono anche un modo di cooperare al di là dei confini geografici e giuridici. Interessanti, da questo punto di vista, sono le blockchain semi-private o consorzio, il cui esempio più noto è Hyper Ledger Fabric.
Questo tipo di blockchain permette a più entità di scambiarsi informazioni in modo sicuro: tramite un meccanismo di verifica delle identità e conseguente erogazione di un certificato in forma di token, solo i partecipanti pre-approvati, cioè possessori del token, sono ammessi nel consorzio (identity management). In aggiunta, al fine di ottimizzare risorse computazionali come tempi, spazio ed energia, moltissime soluzioni fanno ormai uso di canali ausiliari off-chain, dove è cruciale discernere ciò che va o meno messo sulla blockchain e perché.

Un esempio pratico di applicazione dell’identity management e della corretta gestione dell’on-off chain nell’ambito spaziale può essere offerto dalla commercializzazione di immagini Satellitari: utilizzare la blockchain per memorizzare giornalmente Terabyte di file immagine non sarebbe auspicabile né opportuno. Invece, sarebbe interessante spostare sulla blockchain le licenze di quelle immagini, rendendo così più semplice la coordinazione per enti che lavorano ad un fine comune, ad esempio nel coordinare la risposta umanitaria dopo un’ alluvione o terremoto.
In altre parole, spostando la governance delle licenze su una blockchain, si garantirebbe accessibilità, trasparenza e distributività.
Difatti, in questo caso, il problema che si sta risolvendo è quello dei data Silos, facendo leva sul carattere distribuito della blockchain. Spesso infatti le organizzazioni no-profit che acquistano immagini geospaziali hanno bisogno di condividerle con altri enti simili ma in realtà questo non accade e queste restano piuttosto a prendere polvere nel server di quell’ente.
ConsenSys e l’organizzazione no-profit Radiant Earth Foundation, hanno mosso i primi passi in questa direzione giudicando reale la possibilità di aumentare efficacemente la diffusione dei dati satellitari per mezzo blockchain dopo un disastro climatico [6].
In un quadro più ampio, è un dato di fatto che gli asset digitali si siano diffusi molto più rapidamente in Africa, basti pensare al caso Nigeria, che non in Europa. Questo può essere ricondotto alla mancanza di un’infrastruttura robusta del sistema legale/finanziario: le criptovalute hanno di fatto colmato un vuoto esistente in termini di giurisdizione, governance e accessibilità ai servizi finanziari.
Seppur con i dovuti distinguo, ritroviamo nel settore Spaziale la mancanza di una giurisdizione condivisa: l’eterogeneità degli attori, (enti privati, startups, agenzie spaziali…) e le differenti nazioni in gioco, creano il terreno perfetto per l’implementazione di una governance basata sulle blockchain.
Tramite l’uso degli smart contract e dei token come meccanismo di identificazione/ incentivazione si potrebbero regolamentare in maniera automatica e trasparente l’uso, per esempio, di uno stesso asset fisico da più enti. Un caso d’uso potrebbe essere quello dei satelliti, aprendo la strada al Satellite as a Service, trasformando cioè satelliti a singolo operatore in satelliti multi-tenant massimizzando così l ‘efficienza di questa costosa risorsa.
Se, infatti, alcuni marketplace per immagini satellitari si stanno costruendo un posto di tutto rispetto nel mercato, d’altra parte i satelliti dispongono di una gamma molto più ampia di sensori, dai radar agli spettrometri, lavorando su una varietà di lunghezze d’onda. Molti dei dati possono essere raccolti anche di notte o in presenza di nuvole. Si intuisce come questa fonte ricca e densa di dati, in grado di rilevare percentuali di inquinanti nell’aria, salubrità del suolo e veicoli in movimento per citare solo alcune possibilità, abbia molti più casi d’uso rispetto alle più tradizionali immagini satellitari.
Per quanto finora l’implementazione della blockchain in orbita bassa si sia fermata, più o meno con successo, al volo di alcuni dimostratori. Nell’immediato futuro sono diversi gli scenari e i segmenti di mercato in cui questa tecnologia potrebbe trovare largo impiego, favorendo lo sviluppo di nuovi servizi o interi ecosistemi.
La creazione di piattaforme satellitari dedicate da parte di operatori estranei al mercato aerospaziale tradizionale ha dovuto affrontare grossi ostacoli legati alla sostenibilità: specie nelle prime fasi d’impresa, sviluppare asset destinato all’impiego in orbita richiede investimenti ingenti, economici e in termini di conoscenze specifiche. Lo scenario globale non sta certo premiando i più audaci e sognatori (con le dovute eccezioni), con molti investitori più devoti alla prudenza e a business model con i piedi saldi per “terra”[7] [8].
Nuove opportunità
Tuttavia, in questo contesto nuove opportunità potrebbero attirare chi già opera nel settore, con larga esperienza nella progettazione e nell’operatività di asset spaziale. Sono proprio gli operatori “tradizionali” ad avere la possibilità di integrare nuove tecnologie nelle piattaforme di nuova generazione, non dovendo sostenere un completo nuovo sviluppo ma piuttosto costruendo ed espandendo, partendo da quanto già a disposizione. L’impiego di tecnologie blockchain potrebbe abilitare l’apertura delle suddette piattaforme a una pluralità di utenti, slegandosi dalle attuali limitazioni che vedono i satelliti gestiti in maniera centralizzata.
Grazie agli ultimi sviluppi nel campo delle Ground Station as a Service (GSaaS) sarebbe agevole aprire dei gateway tra l’internet classico, quello che finora si è ramificato raggiungendo ogni angolo del globo, e quella che sarà la sua estensione in LEO. Sistemi basati su blockchain permetterebbero invece di assicurarsi la regolamentazione degli accessi agli asset in orbita, lasciando gli aspetti critici della gestione della piattaforma in mano ai costruttori/operatori della stessa e permettendo a una moltitudine di utenti autenticati di eseguire i propri applicativi e raccogliere/scambiare dati. Tutto ciò a vantaggio della sostenibilità economica dello sviluppo e del mantenimento di piattaforme complesse e costose, con una maggior condivisione del rischio d’impresa e una democratizzazione degli accessi a una risorsa, l’orbita bassa, che finora vede dominare poche nazioni.
Si potrebbe anche pensare a un modello “a incentivi”, utilizzando token che agiscono come gettoni per caricare ed eseguire applicazioni e memorizzare dati sulla blockchain.
Facendo ancora leva sulla gestione delle identità, la blockchain potrebbe essere utile nella creazione di “zone affidabili” per costellazioni di satelliti, all’interno delle quali le informazioni raccolte possono essere condivise in sicurezza. Le comunicazioni tra le stazioni di terra e le costellazioni di satelliti richiederebbe poi il monitoraggio degli oggetti spaziali residenti, attivi e inattivi. La blockchain può essere utilizzata per condividere i dati raccolti da sensori eterogenei in orbite diverse, e anche per proteggere le comunicazioni delle costellazioni di satelliti e autenticare le transazioni spaziali tra questi e le stazioni di terra.
Ulteriori applicazioni
Ulteriori applicazioni per aumentare la sicurezza delle attività spaziali potrebbero essere quelle nell’ambito dello Space Traffic Management. Una delle difficoltà in questo contesto è che differenti nazioni hanno di solito politiche e strategie diverse. Poche risorse sono condivise per localizzare i detriti spaziali e i satelliti. Inoltre, anche quando la localizzazione degli oggetti spaziali è nota, non viene necessariamente condivisa per questioni politiche e/o finanziarie. In questo contesto, la blockchain permetterebbe il coordinamento tra i nuovi attori della New Space Economy e le agenzie spaziali al di là dei confini geografici, offrendo al contempo la sicurezza sulla sensibilità dei dati grazie al criptaggio.
Ad esempio, basandosi sugli accordi condivisi codificati in termini di smart contract, quando un satellite specifico rischia una collisione con un detrito spaziale all’interno della sua orbita, aggiornerà tutti i satelliti interessati con le nuove informazioni, tra cui dati di posizione nello spazio e intenzioni di manovra. Questo aggiornamento viene poi distribuito e immutabilmente memorizzato sulla base di un sistema di rete blockchain. Allo stesso modo, se gli accordi di posizione tra satelliti non vengono rispettati, lo smart contract precedentemente stipulato tra le parti farà immutabilmente fede, evitando la creazione di contenziosi orfani di adeguate giurisdizioni.

Se questi scenari sembrano troppo complessi per essere implementati, anche la creazione di un semplice scambio tra domanda e offerta potrebbe svolgersi come memorizzazione da parte di un ente dei propri (meta)dati di osservazione sulla blockchain con rispettiva vendita della chiave di criptaggio a un attore interessato. Secondo un interessante modello proposto dal leader francese nell’insegnamento aerospaziale, ISAE Supareo [9] per salvaguardare una certa openness della scienza, il valore dei dati immagazzinati potrebbe poi decrescere nel tempo portando infine alla pubblicazione della chiave di criptaggio.
Downstream e sicurezza
Un discorso a parte merita poi l’applicabilità della blockchain ai sistemi di geolocalizzazione ai fini di migliorare l’affidabilità. La componente più critica che dobbiamo affrontare oggi nelle tecnologie di localizzazione è quella di progettare un sistema che rilevi i segnali fraudolenti e disincentivi lo spoofing dei dati di localizzazione.
Inoltre, il sistema di posizionamento globale (GPS) è caratterizzato dalla sua fragilità intrinseca legata alla debolezza del segnale: basta trovarsi in una metropoli o tra le montagne per accorgersi che i sistemi GPS soffrono di ingenti limitazioni in situazioni quali affollamento urbano e naturale, sottosuolo o tunnels.

Se da un lato la blockchain può, in questo contesto, essere usata per il suo essere a prova di manomissione (tamper-proof), registrando i dati provenienti dai rilevatori GPS e rendendoli così immutabili e immuni da frodi, un progetto più ambizioso è quello di rimpiazzare direttamente il sistema GPS con una piattaforma di critto-localizzazione decentralizzata, ovvero un network di dispositivi capaci di registrare sulla blockchain la “proof of location”. Di pari passo, la produzione di una “proof of origin” permetterebbe di verificare, a sua volta, l’origine e la genuinità dei segnali che contribuiscono a determinare la localizzazione.
Pioniera in questo senso, è la società XYO Foundation che assicura la tracciabilità di un target facendo leva su un ecosistema di dispositivi che interagendo tra loro creano una cronologia di timestamps e localizzazioni immutabilmente registrate sulla blockchain [10]. Proprio grazie al sofisticato meccanismo di validazione di quest’ultima (protocolli di consenso del network) si assicura che i dati immessi, catturati da diversi segnali (wi-fi, bluetooth…) siano aggiornati e validi.
Difatti, dato che la rete XYO è un sistema trustless, i dispositivi nel network devono essere incentivati a fornire informazioni oneste sulla loro posizione. Questo delicato compito è ottenuto combinando una componente di reputazione con una componente di premio. Da un lato, il dispositivo viene ricompensato con token della rete XYO quando le sue informazioni vengono utilizzate per rispondere a una richiesta. Dall’altro, per aumentare le probabilità di essere ricompensati, gli agenti devono creare basi di dati coerenti con quelli dei loro pari nel network e fornire prove di origine per identificarsi come fonte delle informazioni sulla posizione.
Anche i token non fungibili ovvero gli NFTs (non fungible tokens) trovano varie e interessanti applicazioni in ambito spaziale. Al contrario delle criptovalute che sono beni fungibili, ovvero possono essere sostituite e scambiate con altrettante di egual valore, gli NFTs, rappresentando certificati di proprietà relativi ad asset fisici o digitali sulla blockchain, non sono interscambiabili tra loro. I metadata quali provenienza, autenticità e proprietà sono così salvati in maniera immutabile azzerando il rischio di frodi.
Il loro valore viene stabilito dal mercato, cioè dalla domanda e dall’offerta, e possono essere acquistati e venduti come i beni fisici. Una prima tendenza è certamente quella della tokenizzazione degli asset spaziali, artificiali o naturali che siano. Pionieri in quest’ ambito sono Copernic Space, che in collaborazione con il leader della robotica spaziale Lunar Outpost, ha lanciato la prima vendita tokenizzata di payload spaziali disponibile al pubblico [11]. Essa consente alle aziende e al pubblico di acquistare, utilizzare, dividere e rivendere payload sotto forma di token non fungibili creando un’esperienza simile a quella dell’e-commerce. Il payload in questione è quello di Lunar Outpost, M1 MAPP, che dovrebbe atterrare sulla Luna quest’anno. Questi NFT spaziali non solo forniscono al proprietario diritti d’uso sul payload del rover stesso (venduto a peso), ma creano anche il primo vero mercato degli asset spaziali e un mercato secondario facendo leva sulla rivendibilità e il possibile frazionamento/co-proprietà degli NFT, cioè dei payload in questo caso.
La medesima operazione applicata a corpi celesti si porrebbe poi al centro dell’acceso dibattito tra i promotori della protezione degli asset celesti come “patrimonio dell’umanità”, e la nuova l’interpretazione dell’articolo II del Outer Space Treaty, offerta dagli accordi Artemis, che permette l’estrazione di materie prime dai corpi celesti anche a privati, scollando il concetto di estrazione da quello di proprietà. Così in uno scenario forse non troppo lontano, non mancano le startups che promettono di poter estrarre e riportare su terra minerali sui quali i possessori di NFT potranno, un giorno, far valere i loro diritti.
D’altronde, ExLabs, una startup che lavora con personale che ha lavorato in precedenza alla NASA e SpaceX, sta sviluppando una tecnologia per il mining di asteroidi e ha deciso di usare gli NFTs nel senso più classico, cioè per finanziare le sue future missioni promuovendo la creazione di collezioni artistiche con esclusive immagini dal Deep Space [11]. I possessori di questi NFTs potranno riscattarli per ottenere vantaggi esclusivi, tra cui il lancio del nome del titolare nello spazio, la consulenza sui progetti futuri dell’azienda e sulle decisioni della comunità, l’inserimento di opere d’arte sui veicoli di prossima generazione e la possibilità di possedere frammenti di asteroidi.
Turismo e intrattentimento in orbita
Il turismo spaziale d’altro canto non è rimasto a guardare, e ha trovato le sue vie per far leva sulla blockchain tramite le organizzazioni autonome e distribuite (DAOs). Queste non sono altro che organizzazioni decentralizzate, basate sulla blockchain e quindi senza autorità centrale. Per diventarne membri occorre acquistare i token nativi della blockchain che le supporta, i quali danno diritti di partecipazione alla governance, cioè di voto sulle regole, sulle proposte di altri membri e sulla gestione della tesoreria, cioè sul come distribuire i tokens accumulati dall’organizzazione.
L’esempio di maggior successo in questo ambito è offerto dal lancio in orbita da parte di Moon DAO di un famoso youtuber scelto tramite meccanismo di votazione decentralizzato [12].
MoonDAO ha potuto acquistare il biglietto di Blue Origin tramite la sua campagna di crowdfunding vendendo il suo NFT col seducente nome di “biglietto per lo Spazio” ai membri della DAO (cioè i possessori dello specifico token nativo di quella blockchain) la cui missione sarebbe quella di “decentralizzare l’accesso allo spazio”. Tuttavia, l’utente che detiene suddetti token ha sì la possibilità di votare sull’allocazione delle risorse e di dare consigli sulle operazioni della DAO, ma non ha veri margini di profitto non possedendo, almeno in questo caso, uno stake nella DAO. Rimane aperta la domanda se la democratizzazione dell’accesso allo spazio sia una priorità di una DAO così costruita.
Come non citare, infine, Mr. Elon Musk, che con la sua tanto chiacchierata e attesa missione DOGE-1, prevista entro l’anno, darebbe vita alla prima missione spaziale i cui fondi provengono interamente da criptovalute, gettando le basi, nelle parole del famoso CEO, per il commercio interplanetario [13].
Incoraggianti notizie arrivano dal recente debutto del progetto della Commissione Europea concernente un quadro normativo per la blockchain all’interno di uno spazio limitato e sicuro (Sandbox) [14], il quale offre alle aziende uno spazio controllato per sperimentare questa nuova tecnologia. In questo modo, la reticenza delle aziende all’adozione della blockchain, attribuibile alla mancanza di regolamentazione, dovrebbe essere gradualmente superata.
Rimosso questo ostacolo, è ragionevole attendersi che il settore spaziale guarderà con crescente interesse alla blockchain, come ad un tool dai molteplici casi d’uso, in grado di coniugare sicurezza, trasparenza e sostenibilità per il raggiungimento di un futuro desiderabile.
[1] S. Haing, Your Diploma is an NFT – Mongolian Students to Receive Honors on a Polygon Chain
[2] M. Chittum, A Real Estate-Backed NFT Sold For $653,000
[3] C. Thompson, NFTs and Intellectual Property: What Do You Actually Own?
[4] J. Dey, Cryptosat uses a SpaceX rocket to launch its second ‘cryptographically-equipped’ satellite
[5] Space Chain, SpaceChain Sends Blockchain Technology to the International Space Station
[6] N. Desk, Radiant Earth Foundation partners with ConsenSys to make Geospatial Data more accessible with blockchain
[7] D. Werner, It’s belt-cinching time for space startups
[8] A. Sriram, Space startups funding halved in 2022 as investors shift to safer bets
[9] J. Lacan, Quelques applications des blockchains pour l’Espace
[10] A. Trouw, The XY Oracle Network: The Proof-of-Origin Based Cryptographic Location Network
[11] J. Ellis, Asteroid Mining Company Turns To NFTs For Funding
[12] E. Tan, A DAO That Literally Wants to Party on the Moon Just Sent a Viral YouTuber to Space
[13] A. Mikaia, Dogecoin (DOGE): Elon Musk promet la lune à sa cryptomonnaie favorite
[14] S. Kaaru, European Commission launches blockchain regulatory sandbox
Gli autori di questo approfondimento
Da sempre attratta dall’interdisciplinarità, ho iniziato il mio percorso accademico da fuori sede a Torino, laureandomi in Filosofia. Era solo l’inizio di un viaggio che mi ha portato a vivere, a oggi, in otto città, in tre nazioni, e a laurearmi in Ingegneria Fisica ed Elettronica al Politecnico di Torino, conseguendo inoltre un dottorato di ricerca in Francia in collaborazione con l’Agenzia Spaziale Francese e la Commissione all’Energia Atomica e Alternativa. Appassionata di scrittura, tecnologie di frontiera sostenibili e resilienza climatica, collaboro con agenzie ONU per contribuire al cambiamento di paradigma necessario ad affrontare le sfide di oggi, nella prospettiva di un domani auspicabile.
Sono da sempre appassionato di tecnologia, storia e velocità, ho studiato Ingegneria Elettronica al Politecnico di Torino e al KTH di Stoccolma e ho lavorato allo sviluppo di due auto da corsa elettriche. Dal 2016 sono parte del team di Argotec, dove ho contribuito alle missioni ArgoMoon e LICIACube e dove, dal 2018, coordino l’Electronics Unit.