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| On 4 settimane ago

Presente e futuro della gestione dei detriti spaziali. Intervista a Tim Flohrer, responsabile dell’ESA Space Debris Office

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I detriti spaziali rappresentano una delle sfide più urgenti per la sicurezza delle operazioni in orbita. Con decine di migliaia di oggetti tracciati e milioni di frammenti più piccoli in circolazione, il rischio di collisioni è in costante aumento.

Per capire meglio la situazione attuale e le strategie di mitigazione, ho incontrato Tim Flohrer, Responsabile dell’Ufficio Detriti Spaziali dell’ESA, la mattina del 17 febbraio nella Space Safety Room, una struttura tecnica recentemente creata presso l’ESOC, l’European Space Operations Centre di Darmstadt, in Germania, il centro dell’ESA che si occupa del controllo in volo delle missioni spaziali dell’Agenzia.

Abbiamo trascorso quasi due ore a parlare di tutti gli aspetti relativi ai detriti spaziali, dello stato attuale e dell’evoluzione futura dei rischi e delle azioni intraprese per mitigarli.

You can read the full interview with Tim Flohrer in English here. Puoi leggere l’intervista integrale su ORBIT qui.

Nel rapporto annuale dell’ESA sullo spazio dell’anno scorso si affermava: “Senza ulteriori cambiamenti, il comportamento collettivo delle entità spaziali (aziende private e agenzie nazionali) è insostenibile a lungo termine”. Per cui la mia prima domanda è: sei preoccupato?

Come ingegnere sono abituato a non fissarmi sulle preoccupazioni, ma a lavorare piuttosto sulle soluzioni. Questo non mi impedisce di avere delle preoccupazioni, però, soprattutto per due motivi. Il primo è che le linee guida per la mitigazione dei detriti che abbiamo stabilito a livello mondiale oltre 10-15 anni fa non sono ancora state pienamente recepite dalle varie missioni spaziali, almeno non al livello che riteniamo necessario; il secondo motivo è che nel frattempo il traffico spaziale è aumentato enormemente.

Le linee guida a cui faccio riferimento si basano sulla situazione che conoscevamo e prevedevamo 20 anni fa, mentre la realtà di oggi è molto diversa, molto peggiore per via del numero di veicoli spaziali attivi, molto più alto rispetto alle previsioni di allora.

Diamo un’occhiata ai singoli aspetti, iniziando dall’ambiente LEO (Low Earth Orbits, cioè orbite terrestri a bassa altitudine). In questa regione osserviamo da qualche anno un rapido aumento del numero di satelliti attivi. Siamo ancora lontani dal rischio di avviare una catena di collisioni che renderebbe le orbite LEO inutilizzabili per le attività spaziali? Accadrà mai, secondo te?

Stiamo affrontando oggi un cambiamento senza precedenti e rivoluzionario nel modo in cui utilizziamo l’ambiente LEO, principalmente per applicazioni commerciali, e soprattutto nel settore delle reti di comunicazione ad alta larghezza di banda e bassa latenza. Questo campo è oggi dominato dalle mega-costellazioni, a partire da Starlink, a cui presto ne seguiranno altre, come il sistema Amazon-Kuiper o le costellazioni cinesi. Starlink si trova a 550 km di altitudine, le altre occuperanno altre altitudini.

Visualizzazione dei 30 000 satelliti pianificati della costellazione Starlink Generation 2 a partire dal 2022. Diverse sottocostellazioni sono illustrate con un colore diverso. Credits: ESO

Inoltre, osserviamo che il prezzo decrescente dei lanci sta rendendo le attività commerciali spaziali più accessibili a un numero sempre più grande di operatori. Tra questi c’è un’enorme diversificazione, di esperienza, di applicazioni. Naturalmente supponiamo che sia nell’interesse di questi operatori mantenere lo spazio utilizzabile e quindi evitare il rischio di catastrofiche catene di collisioni. In ogni caso, in questa situazione nuova e in rapida evoluzione, possiamo usare i nostri modelli per fare previsioni a lungo termine che ci mostrano dove i rischi di una situazione fuori controllo sono (per quanto possiamo giudicare oggi) più elevati.

In effetti vediamo che ad alcune altitudini stiamo vicini a raggiungere il punto critico. Penso in particolare alle orbite a 800 km di altitudine. In quest’area abbiamo un alto rischio di frammentazioni gravi (principalmente di stadi superiori di razzi abbandonati lì nei primi anni dei voli spaziali e non passivati [cioè senza aver preso precauzioni per ridurre il rischio di esplosione involontaria, n.d.r.]). E non solo questa regione contiene un gran numero di questi oggetti e di detriti, ma a queste altitudini l’effetto di “pulizia” naturale tramite decadimento orbitale è molto lento, quindi gli oggetti rimangono lì per molti decenni. Allo stesso tempo, il crescente utilizzo di questa orbita da parte soprattutto dei satelliti di osservazione della Terra contribuisce a riempirla, aumentando la criticità della situazione.

Se invece guardiamo alle orbite molto basse, intendo quelle al di sotto dell’altitudine dei voli spaziali umani, cioè al di sotto dei 400 km, queste hanno un forte effetto autopulente dovuto alla resistenza dell’alta atmosfera. Quindi non sono oggi la preoccupazione principale, anche in caso di una collisione isolata. Ma se l’uso operativo in questa zona continuasse ad aumentare questa valutazione potrebbe diventare molto diversa in futuro.

Nel regime di altitudine attorno ai 500 km, dove la densità di oggetti attivi è oggi la più elevata, esiste comunque ancora un certo margine, perché gli operatori possono controllare l’altitudine senza enormi costi di propellente, e quindi anche provocare il rientro di satelliti a fine vita. Gli operatori responsabili in questa zona hanno mezzi ragionevolmente praticabili per tenerla pulita. Insomma, ritengo che oggi sia principalmente l’orbita a 800 km a richiedere urgenti azioni di bonifica.

L’occupazione dell’orbita geostazionaria (GEO) d’altro canto sembrerebbe avere la tendenza a diminuire, sotto la concorrenza delle mega-costellazioni in orbita bassa. Tuttavia ci sono stati recenti guasti catastrofici di satelliti GEO. Qual è la situazione attuale in termini di numero di oggetti, rischio di collisione? Come vedi le tendenze nei prossimi anni?

In realtà la frequenza dei lanci verso la GEO non sta diminuendo, ma è vero che ultimamente non sono nemmeno aumentati. Direi che l’occupazione di questa preziosa orbita è piuttosto stabile. I satelliti GEO hanno per loro natura una durata operazionale molto lunga, e gli operatori sono interessati a prolungarla al massimo.

È vero che dalla GEO non puoi competere con le costellazioni in LEO in termini di latenza, ad esempio, ma questa orbita rimane unica per la sua capacità di offrire un’ampia panoramica che copre contemporaneamente quasi metà del globo. Quindi sia i satelliti meteorologici che quelli per le comunicazioni continueranno, a mio parere, a utilizzare la GEO come complemento dei loro satelliti in LEO. Se vedremo una diminuzione nell’uso della GEO sarà probabilmente nell’area dei satelliti scientifici, una tendenza che è già iniziata da tempo.

È interessante notare che la GEO è da tempo dominata da operatori commerciali. E la buona notizia è che questi operatori hanno gradualmente aumentato la loro conformità alle linee guida per la mitigazione dei detriti, fino a livelli attorno al 90%. Questo è molto di più di quanto osserviamo per gli operatori in LEO, che tendono a essere più giovani e ancora poco esperti delle problematiche del settore spaziale.

Per quanto riguarda i frammenti, ne conosciamo molti perché li tracciamo da anni, ma abbiamo anche recentemente trovato nuovi frammenti che non possono essere correlati con eventi di frammentazione noti, ma probabilmente esistono da molto tempo. Il problema è che, a causa della distanza, è difficile tracciare piccoli oggetti sulla GEO, sia con i radar che con i telescopi. Oggi la dimensione minima degli oggetti che possiamo identificare e tracciare individualmente con i telescopi è di 30-50 cm. Utilizzando metodi statistici di campionamento, possiamo scendere fino a dimensioni di 10-15 cm.

Differenze fra orbita LEO e GEO (Terra non in scala). Credits: Skytrac

Quando ero a capo del dipartimento delle operazioni spaziali dell’ESA, fino a circa 4 anni fa, gestivamo in orbite LEO circa 10 satelliti, e per questi, insieme al vostro team, dovevamo eseguire ogni mese una media da una a tre manovre orbitali per evitare una collisione. E il numero di allarmi di possibile collisione che richiedevano il nostro intervento ma che alla fine non risultavano in una manovra era superiore di un fattore da 5 a 10. Con il rapido aumento dei satelliti in LEO degli ultimi anni, ci sarà stato un impatto sul rischio di collisione e forse sul numero di allarmi e manovre. Puoi darmi un’idea delle cifre di oggi?

Oggi il mio Ufficio fornisce i suoi servizi di monitoraggio a più di 20 satelliti in LEO (non tutti dell’ESA). Il rapporto tra allarmi di congiunzione su cui siamo costretti a intervenire e manovre effettivamente eseguite non è aumentato, grosso modo è rimasto intorno a 5, come ai tuoi tempi.

È vero che il numero di oggetti in orbita è aumentato significativamente rispetto a qualche anno fa, ma abbiamo anche avuto un aumento della qualità dei dati, ovvero l’accuratezza del tracciamento dei detriti, e questo in una certa misura compensa l’aumento del traffico, così che il numero di allarmi su cui dobbiamo intervenire non è aumentato in modo drammatico.

E questo è il parametro importante, poiché è quando un allarme deve essere trattato come una possibile collisione che la mole di lavoro per il mio ufficio e per il team delle operazioni aumenta enormemente. In futuro ci aspettiamo tecnologie di tracciamento sempre migliori che continuino a migliorare ulteriormente la qualità dei dati di tracciamento degli oggetti. La telemetria laser è una di queste tecnologie, su cui stiamo lavorando anche noi. Vedo anche spazio per la nascita di aziende commerciali che offrono servizi di tracciamento di alta qualità per migliorare la conoscenza sulla popolazione di detriti.

D’altra parte, ciò che sta effettivamente rendendo il nostro lavoro più difficile oggi rispetto a qualche anno fa è il rapido aumento dei satelliti attivi. Infatti, per quanto possa sembrare strano a prima vista, gestire un allarme di collisione con un oggetto attivo è molto più complicato che con uno inattivo (come un pezzo di detriti o un satellite morto). Gli oggetti inattivi rimangono nella loro orbita e puoi star certo che non la cambieranno all’improvviso. Al contrario, un oggetto attivo potrebbe avere già un piano di manovra di cui non sei a conoscenza e stare per cambiare la sua orbita: con i dati di tracciamento hai informazioni solo sulle orbite passate e presenti, non su quelle future.

Ciò significa che la gestione di un allarme di collisione con un oggetto attivo richiede un coordinamento intenso e uno scambio rapido di informazioni con l’operatore dell’oggetto. E qui abbiamo a che fare con un numero crescente di operatori, molti dei quali possono essere nuovi, inesperti, alcuni dei quali difficili da identificare rapidamente e persino da raggiungere. Lo sforzo che dobbiamo investire oggi in queste attività di coordinamento è enorme e in rapido aumento. Così la complessità del processo si traduce anche in maggiori rischi di collisione.

Rappresentazione artistica di un satellite che viene colpito da un detrito spaziale. Credits: ESA

Parliamo ora dei rischi a terra. Ci sono state negli ultimi tempi varie segnalazioni di rientri di detriti che colpiscono la superficie, inclusi alcuni che avrebbero causato danni. Il rischio di essere colpiti da detriti spaziali a terra sta aumentando in modo significativo?

In effetti il problema del rientro di detriti è cambiato molto negli ultimi anni. Ciò è chiaramente mostrato nel nostro rapporto annuale sull’ambiente spaziale. Se gestisci una mega-costellazione di satelliti in LEO, questi periodicamente raggiungeranno la fine della loro vita orbitale e dovranno rientrare in atmosfera. Di conseguenza dovrai sostituirli regolarmente. Pertanto è abbastanza facile calcolare l’ordine di grandezza dei rientri satellitari: per una costellazione completata sarà fondamentalmente lo stesso del numero di satelliti lanciati per sostituirli in orbita.

Ad esempio, se il numero di satelliti lanciati in un anno è 2000, allora devi calcolare che osserverai in media 2000 rientri all’anno. Già oggi prevediamo un tasso medio di rientro attorno a qualche satellite al giorno. Questi rientri oggi non sono una preoccupazione significativa per la sicurezza a terra: sono generalmente satelliti piuttosto piccoli e si suppone che in genere si disintegrino e brucino completamente nell’atmosfera.

Ciò che preoccupa di più sono gli oggetti grandi e pesanti, come gli stadi superiori dei razzi, che però si dovrebbero poter evitare controllandone il rientro, o grandi satelliti con serbatoi compatti o grandi sistemi ottici, che però attualmente non sono molto frequenti. In ogni caso anche i rientri controllati possono fallire, per via di guasti del satellite in volo, quindi il problema dei rientri incontrollati dei veicoli grandi e pesanti non sparirà mai del tutto.

C’è tuttavia anche una preoccupazione legata alla disintegrazione dei satelliti nell’atmosfera: il potenziale inquinamento atmosferico. Dato che il numero di lanci e rientri di satelliti che si disintegrano nell’atmosfera sta aumentando rapidamente, la quantità di potenziali inquinanti rilasciati dalle attività spaziali nell’alta atmosfera potrebbe diventare un problema significativo.

Oggi stiamo cominciando a quantificare il materiale immesso nell’alta atmosfera come risultato del processo di disintegrazione dei satelliti, ma non sappiamo ancora bene quali ne siano gli effetti inquinanti. È urgente che gli operatori spaziali e gli esperti di detriti spaziali inizino una discussione con la comunità degli scienziati atmosferici per creare dei modelli e validarli.

Ma se riducessimo la disintegrazione durante il rientro, di conseguenza aumenterebbe il rischio di incidenti a terra. L’unica soluzione, nel caso che il rischio superi una soglia specifica, resta allora il rientro controllato o almeno assistito, per avere il controllo su dove cadrà il satellite, indirizzandolo ovviamente sugli oceani dove il rischio di danni a terra è praticamente nullo. L’ESA ha già deciso oggi di imporre il requisito della capacità di rientro controllato su tutti i suoi satelliti. Questo ne aumenta il costo, ovviamente, ma è una decisione molto responsabile. L’ESA ha anche recentemente mostrato, con il rientro assistito del satellite Aeolus o quello di Cluster-2, che anche per satelliti vecchi, che non sono stati progettati per un rientro controllato, esistono buone soluzioni per ridurre i rischi di danni al suolo.

Momenti chiave del rientro del satellite Aeolus dell’ESA nel 2023. Credits: ESA

A proposito di decisioni responsabili, potresti spiegare in cosa consiste l’”Iniziativa zero detriti”? A che punto è? Stiamo già vedendone risultati concreti?

Questa iniziativa nasce come uno degli obiettivi per l’ESA elencati nell’Agenda 2025, stabiliti da Josef Aschbacher quando è diventato Direttore generale dell’Agenzia nel 2021. Gli Stati membri hanno risposto positivamente con il mandato di limitare i detriti spaziali. Ma ci siamo presto resi conto che una tale iniziativa non ha molto senso se rimane isolata all’interno dell’ESA: necessita di un approccio comunitario.

Abbiamo subito trovato un forte supporto da parte di tutti: Stati membri e agenzie nazionali, ma anche aziende commerciali, e tra queste sia grandi integratori di sistemi che piccole e medie imprese. La comunità ha deciso di elaborare un breve documento politico di due pagine che contiene anche obiettivi molto misurabili. L’ESA, in quanto membro della comunità, ha poi utilizzato questo documento per aggiornare la sua politica di mitigazione dei detriti spaziali e derivarne requisiti tecnici dettagliati. Ciò è accaduto nel 2023, quindi è stato un processo notevolmente rapido.

Come comunità abbiamo persino sviluppato un opuscolo che descrive le tecnologie necessarie. Questo documento è stato appena pubblicato, e intendiamo aggiornarlo regolarmente. La politica di mitigazione di detriti dell’ESA genera requisiti che affrontano questo aspetto da una direzione molto interessante: a ogni missione specifica viene assegnato un budget complessivo per il rischio di frammentazione in orbita.

Dopo di che è il responsabile del progetto che decide che misure prendere per restare entro questo budget: ad esempio può aumentare l’affidabilità del satellite, implementare sistemi per spostarlo su orbite diverse dopo la fine della missione, migliorare il modo in cui viene gestito per mitigare il rischio di collisione o progettarlo in modo che possa essere rimorchiato e distrutto alla fine della missione, o una combinazione di queste misure.

Con la discussione dell’iniziativa zero detriti e dei relativi requisiti di mitigazione dei detriti spaziali, è tuttavia stato subito chiaro alla comunità che una delle misure che saranno inevitabili in futuro sul lungo periodo è la rimozione dallo spazio dei detriti più grandi. Si può dimostrare tramite simulazioni che anche se si seguono strategie di mitigazione dei detriti molto rigide, la densità in alcune orbite, come l’orbita a 800 km di altitudine di cui abbiamo già parlato, è troppo alta e un giorno si verificherà quasi certamente la tanto temuta catena di collisioni. Quindi bisogna rimuovere i grandi detriti da queste orbite.

Ci aspettiamo che un giorno i regolatori diventeranno davvero molto più severi nell’imporre misure di mitigazione dei detriti a priori, ma anche in quel caso non si avrà mai il 100% di affidabilità di qualsiasi sistema implementato. Pertanto la disponibilità di una capacità di rimozione attiva dei detriti sarà sempre richiesta per coprire il divario e intervenire nei casi (si spera rari) in cui le misure di mitigazione saranno fallite.

Dal punto di vista tecnico, i sistemi per rimuovere i grandi detriti dall’orbita sono in fase di progettazione e presto verranno dimostrati in volo. Ma sono ancora lontani dall’essere operativi su grande scala. D’altra parte, anche una volta risolti i problemi tecnici, rimane il problema di chi deve pagare i costi, molto elevati, di queste rimozioni. A proposito di questo, vorrei menzionare un approccio molto innovativo, per il momento ancora in fase di studio e definizione nel mondo accademico, per misurare l’impatto di una missione specifica sull’ambiente spaziale.

Questa è un’attività oggi guidata da università come il Politecnico di Milano e l’EPFL di Losanna, e supportata dall’ESA. Fondamentalmente l’obiettivo è definire e misurare una cosiddetta “capacità” dell’ambiente spaziale, per poi misurare quanto una specifica missione consumi questa capacità. Ad esempio, un Cubesat che vola a poche centinaia di km di altitudine consumerà una parte relativamente piccola della capacità dell’ambiente spaziale, mentre un grande stadio superiore a 800 km di altitudine si troverà sul lato opposto dell’intervallo in termini di occupazione della capacità. Se si riuscisse ad assegnare un valore numerico al “consumo di capacità dell’ambiente spaziale” di ogni missione, si potrebbero fornire indicazioni preziose non solo ai progettisti della missione, ma anche ai decisori politici.

Questo è un approccio simile a quello utilizzato per misurare gli impatti delle attività umane sul cambiamento climatico. È un compito molto difficile, e richiede la combinazione di vari modelli, ma se avesse successo e venisse riconosciuto, potrebbe essere utilizzato per identificare le misure più efficaci per cercare di raggiungere un utilizzo sostenibile dell’ambiente spaziale.

Grazie mille, Tim, per questo riassunto molto completo della situazione dell’ambiente spaziale e delle problematiche che lo circondano. Auguro a te e al tuo team tutto il meglio nel vostro sforzo di mantenerlo utilizzabile per tutti noi.

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