Il 22 ottobre 2024, presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI) a Roma, si è svolto l’evento “L’Europa nello spazio: AstroTalk con Samantha Cristoforetti”. Un’occasione importante per esplorare il futuro dell’Europa nello spazio attraverso il punto di vista di un’astronauta fra le più influenti dell’esplorazione spaziale europea.
Con la partecipazione di Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’IAI, e moderato da Karolina Muti, responsabile di ricerca per i programmi di Difesa e Sicurezza dell’IAI, il dialogo con Samantha Cristoforetti ha avuto un focus sul ruolo dell’Europa in un contesto internazionale sempre più dinamico, con una crescente competizione verso le nuove frontiere dell’esplorazione lunare e marziana.
In particolare, nel corso dell’evento, Cristoforetti ha sottolineato come sia importante avere un’Europa unita e consapevole di cosa vuole per lo spazio, un’Europa in cui la collaborazione internazionale può fare la differenza. Al riguardo ha affermato:
L’Italia è un paese con una forte tradizione industriale per lo spazio, in cui continuiamo a formare bravi ingegneri e ingegnere, e il problema – ma non è solo italiano – è che bisogna pensare a livello europeo, smettendo con il narcisismo delle piccole differenze.
Prima dell’evento, abbiamo avuto l’opportunità di tenere un’intervista esclusiva e privata con Samantha Cristoforetti, discutendo il suo coinvolgimento nello sviluppo della nuova capsula europea per astronauti e il futuro dell’Europa nello spazio. Nell’intervista, Cristoforetti ha condiviso riflessioni sul crescente ruolo europeo nell’esplorazione spaziale e sulle sfide che l’ESA dovrà affrontare nel prossimo decennio.
Nel corso dell’evento di oggi, si parlerà dell’Europa nello spazio. Con l’ESA sempre più coinvolta nei programmi internazionali, quale pensa sia il contributo più importante che l’Europa può offrire alle future missioni lunari e marziane?
La domanda da porsi, secondo me, è un’altra: qual è il livello di ambizione che l’Europa vuole avere? Perché, parlando di contributi importanti – e qui dobbiamo definire cosa intendiamo per ‘importante’ – se guardiamo il programma Artemis di esplorazione lunare, è evidente che abbiamo un contributo significativo. Se consideriamo Orion, ad esempio, il modulo di servizio – cioè metà della capsula – è costruita in Europa. Se pensiamo al Gateway, quasi metà di essa sarà realizzata in Europa. Quindi, il nostro ruolo è rilevante. La vera domanda però è: quanto vogliamo contribuire? E non parlo solo in termini di quantità o dell’importanza dei singoli contributi, ma di quanto questi rappresentino una reale capacità autonoma di esplorazione spaziale da parte dell’Europa.
Capisce bene che, se lei prende una macchina e costruisce solo le ruote, è sicuramente un contributo fondamentale – senza ruote, la macchina non va da nessuna parte. Però, non è lo stesso che costruire il motore o il telaio. Ogni componente è essenziale, certo, ma non tutti i contributi riflettono la stessa capacità tecnologica o lo stesso livello di autonomia. Dobbiamo chiederci quanto questi contributi ci permettano di essere autonomi, di prendere decisioni in modo indipendente, e magari, in futuro, di sviluppare programmi propri senza doverci affidare completamente ad altri.
Collaborare è una scelta, e affidarsi alle capacità altrui può essere una decisione consapevole. Ma è diverso quando non si è in grado di fare diversamente e ci si trova costretti a farlo. Naturalmente, non è tutto bianco o nero, è una questione di gradi. Su questo spettro, che va da una minore a una maggiore autonomia, credo che per l’Europa sia cruciale spostarsi verso una maggiore indipendenza e capacità tecnologica.
Questo non significa che potremo mai avere le stesse capacità degli Stati Uniti o di altre potenze, perché i livelli di investimento e le dimensioni sono diverse. Ma, se pensiamo alla vecchia collaborazione tra americani e russi sulla Stazione Spaziale – che in parte continua tuttora – perché l’Europa non potrebbe avere un ruolo simile a quello che avevano i russi? Non erano allo stesso livello degli americani, ma avevano comunque una loro autonomia, e sono stati in grado, ad esempio, di mantenere operativo il programma della Stazione Spaziale quando gli Shuttle non erano più disponibili. Credo che potremmo aspirare a un ruolo simile, aumentando gradualmente la nostra autonomia.
Durante la sua carriera, ha sperimentato numerose innovazioni tecnologiche a bordo della ISS. Qual è, secondo lei, l’innovazione tecnologica che avrà il maggiore impatto sulla futura esplorazione spaziale europea?
Secondo me, ciò che è davvero necessario in termini di innovazione – e in parte è già avvenuto, ma deve crescere ancora di più – non riguarda tanto lo spazio, quanto l’industria. Se guardiamo a ciò che ha fatto SpaceX, per esempio. Io ho volato su un veicolo SpaceX, e per carità, la mia prima missione l’ho fatta sulla Soyuz, quindi posso dirlo con certezza: la Dragon è visibilmente un veicolo moderno, soprattutto dal punto di vista del software. Ma è davvero qualcosa di fondamentalmente nuovo e diverso rispetto a una Soyuz? Se ci si ferma un attimo a pensarci, forse no. Però cosa ha fatto SpaceX di così speciale?
Ha creato processi industriali molto più efficienti, con tempi di sviluppo più rapidi, costi più contenuti nella produzione ricorrente, nel refurbishment e nella riutilizzabilità. Ecco dove stanno, secondo me, le grandi sfide. Alcuni passi avanti sono stati fatti, ma in Europa questo percorso deve essere intrapreso in modo più deciso.
Se guardiamo all’esplorazione spaziale, una delle domande che mi pongono spesso è: ‘Perché non siamo tornati sulla Luna per 50 anni? La risposta è che non abbiamo sviluppato processi industriali abbastanza efficienti da rendere queste missioni sostenibili dal punto di vista dei costi. Per questo motivo, credo che la vera sfida si vinca a livello di produzione.
In questi anni si sta parlando sempre di più di stazioni spaziali private, e molti Stati si stanno muovendo per costruire la loro. Crede che valga la pena continuare a impegnarsi in orbita bassa dopo oltre 25 anni di ISS? E crede che la moltitudine di progetti di questo tipo sia un “fallimento” dell’esempio internazionale della ISS, o una evoluzione inevitabile?
No, un fallimento direi proprio di no. Secondo me la Stazione Spaziale ha dimostrato che l’orbita bassa terrestre è ormai un ambito acquisito. La consideriamo ancora parte dell’esplorazione, ma ormai l’orbita bassa è una cosa superata. Parliamo di uno spazio a una distanza relativamente piccola, circa 400 km dalla superficie terrestre. Ormai sappiamo come gestire questo spazio: sappiamo come arrivarci, come viverci, come lavorarci e come tornarci.
Certo, ci sarà sempre chi dice che dobbiamo studiare ancora il corpo umano, l’assenza di peso, cosa succede in determinate condizioni, e ci saranno sempre cose da approfondire. Ma dal punto di vista tecnologico, non è più questa grande sfida che richiede l’attenzione di tutte le agenzie spaziali del mondo, come se fosse ancora una frontiera da conquistare. Questo poteva essere vero vent’anni fa, quando tutto è iniziato, ma oggi possiamo fare una transizione verso una presenza più di routine.
Questa gestione può tranquillamente, anzi deve, essere affidata agli attori privati, che hanno modalità più efficienti e una maggiore attenzione ai costi. È un aspetto molto importante, e le risorse delle agenzie spaziali possono essere concentrate su sfide più avanzate.
Lei ora è responsabile del progetto di trasporto cargo europeo. Ci può raccontare in cosa consiste e come sta procedendo?
I progetti sono essenzialmente a guida industriale. Quando dico che sono “responsabile”, intendo che sono responsabile del team che gestisce questo contratto per conto dell’ESA. Lavoriamo a stretto contatto con l’industria, li supportiamo e verifichiamo che svolgano il lavoro per cui vengono pagati, perché anche quello fa parte del nostro compito. Tuttavia, lo sviluppo e tutte le scelte di design sono affidate a loro, ed è un po’ diverso rispetto ai classici progetti ESA, dove il design è gestito direttamente dall’agenzia.
In quei casi, l’ESA dice all’industria esattamente cosa deve fare. Qui, invece, diciamo solo che questo è l’obiettivo: entro il 2030 deve volare una missione di dimostrazione sulla Stazione Spaziale, portare carico e riportarlo a terra. Ovviamente, ci sono una serie di requisiti, soprattutto in termini di sicurezza, che sono imposti dalla NASA. Stiamo parlando di centinaia di requisiti di interfaccia, poiché devo interfacciarmi con un modulo che opera nello spazio.
Tuttavia, al netto di questi requisiti, tutte le scelte quotidiane di design e procurement sono prese dall’industria, e noi non interferiamo, a meno che non ci venga espressamente chiesto un suggerimento.
Attualmente, abbiamo avviato i contratti di fase 1, che sono iniziati a maggio di quest’anno e dureranno fino a maggio 2026. Alla fine dell’anno prossimo andremo alla ministeriale per chiedere ai nostri Stati membri di confermare il programma e fornirci i fondi per la fase 2. In fase 1, abbiamo investito pochissimi soldi, perché il programma è nato tra una ministeriale e l’altra, quindi non c’è stato un finanziamento dedicato. Abbiamo recuperato i fondi dall’Envelope Program, con solo due contratti da 25 milioni ciascuno.
La startup [The Exploration Company ndr.] sta già investendo molto denaro raccolto dagli investitori, e sta procedendo abbastanza rapidamente perché dovrebbe lanciare già nel 2028. Thales Alenia Space, invece, ha investito finora solo il 10% del minimo richiesto, che era il 20% nella fase 1, quindi per ora stanno procedendo più lentamente e dovrebbero completare entro il 2030. Poi, ovviamente, dovranno vincere il contratto di fase 2, che sarà nuovamente una competizione aperta. Anche se le aziende che hanno già partecipato alla fase 1 saranno, per così dire, avvantaggiate, in linea di principio la competizione sarà riaperta ad altre potenziali aziende.
I criteri di valutazione saranno la credibilità tecnica – dovremo essere sicuri che possano completare il progetto nei tempi previsti – e la loro capacità di assicurare il cofinanziamento, dimostrando di avere i fondi necessari. Inoltre, dovranno fornirci un business plan credibile che vada oltre la domanda istituzionale, dimostrando quante missioni prevedono di vendere in futuro e come pensano di recuperare l’investimento. Questo ci permetterà di valutare se il progetto è sostenibile anche da un punto di vista commerciale.
Questa è una domanda che è stata proposta dagli iscritti alla nostra community ORBIT. Ha avuto la possibilità di viaggiare su due capsule molto diverse tra loro, la Soyuz e la Dragon, potendo così osservare due approcci allo sviluppo e alla gestione. Quali sono i principali pregi di queste due realtà che punta a portare in Europa per lo sviluppo di una capsula?
Sicuramente, l’esperienza con veicoli come la Dragon, ti permette di dare un feedback. Facciamo un esempio banale: tutti abbiamo notato che alcuni veicoli sono molto piccoli, meno comodi. La Dragon, invece, è molto più spaziosa, e il mio augurio è che ci si orienti sempre più verso questo tipo di design, con caratteristiche geometriche un po’ più moderne.
Naturalmente, c’è un limite a ciò che posso condividere su Dragon, trattandosi di un prodotto privato dell’azienda, e non commenterei mai su aspetti riservati. Però, l’esperienza di utilizzo principale credo possa essere importante.
Un aspetto importante è anche l’evoluzione da veicolo cargo a veicolo con equipaggio, ed è quello che speriamo possa accadere anche in Europa con questi veicoli. Uno dei criteri che abbiamo inserito nella valutazione è proprio che le aziende ci mostrassero come immaginano l’evoluzione da cargo a crew, e questo è stato parte del processo di valutazione.
La speranza, che condivido con molti altri, è che questo progetto possa rappresentare un’occasione per dare una scossa all’industria in Europa. Come dicevo, collaboriamo con aziende classiche come Thales Alenia Space, che ha tutto il know-how necessario, ma che deve affrontare la sfida del contenimento dei costi, considerando che questo programma ha una scadenza legata alla fine della Stazione Spaziale. È un programma cofinanziato, e le industrie devono contribuire al 40% dello sviluppo, quindi quando i costi sono più alti, non è solo un problema di chiedere soldi all’agenzia. Devi anche convincere i tuoi investitori a finanziare il progetto. Pertanto, c’è una sfida importante in termini di efficienza e contenimento dei costi.
Poi c’è la startup The Exploration Company, che rappresenta un’estrema opposta: sono molto agili e dinamici, ma hanno una curva di apprendimento ripida, perché non hanno l’heritage, sono completamente nuovi. Magari i singoli individui hanno esperienza, ma l’azienda non ha alcuna storia pregressa. Quindi ci troviamo di fronte a due estremi, ognuno con i suoi vantaggi e le sue sfide.
Tutti si chiedono quale sarà la prossima SpaceX europea: potrebbe essere una startup che cresce come ha fatto SpaceX, oppure potrebbe essere un’azienda come Thales che si reinventa e modernizza i propri processi. Magari entrambe, e sarebbe ancora meglio.
Quali sono le sfide principali per l’Europa nello sviluppo di capacità di trasporto spaziale autonomo, e come si inserisce questo nella strategia futura di accesso allo spazio e nella collaborazione con partner privati?
Uno degli aspetti chiave è che ora siamo noi a decidere come usare le risorse e a sviluppare i mezzi, ma non sempre sappiamo esattamente se o come verranno utilizzati. Il rischio c’è, ed è evidente, ma è un rischio condiviso con gli operatori privati, con cui parliamo costantemente. Non sappiamo ancora quale sarà la soluzione che verrà effettivamente selezionata, ma una cosa è certa: queste aziende avranno bisogno di trasporto. Le stazioni spaziali non si costruiscono da sole, e sia gli operatori che i clienti avranno bisogno di un accesso continuo all’orbita.
Noi, come europei, siamo una parte importante di questo mercato. Anche se guardiamo solo ai voli istituzionali, è chiaro che gli Stati europei continueranno a voler fare ricerca, sviluppare tecnologie e inviare astronauti in orbita bassa. Tuttavia, non possiamo continuare a pagare il biglietto a aziende non europee, come è successo in alcuni casi negli ultimi anni. Questi sono soldi dei contribuenti italiani ed europei, e devono rimanere in Europa per creare posti di lavoro e sviluppare tecnologie qui, non negli Stati Uniti.
Il LEO cargo rappresenta una soluzione win-win: le aziende hanno bisogno di clienti, e noi vogliamo far volare astronauti e condurre esperimenti. Invece di pagare per il trasporto, possiamo sviluppare capacità autonome che ci permettano di scambiare servizi, come facciamo ora con la Stazione Spaziale Internazionale. Quando sono andata nello spazio, nessuno ha pagato direttamente la NASA per il volo: abbiamo dato contratti alla nostra industria per costruire moduli, come quello per l’ISS o il modulo di servizio di Orion, e in cambio abbiamo ottenuto la possibilità di trasportare astronauti e materiali.
Questo modello di scambio è fondamentale per garantire che i fondi europei rimangano in Europa, permettendo alle nostre industrie di sviluppare le capacità necessarie. Se ci trovassimo nella situazione di dover pagare per far volare i nostri astronauti, sarebbe un passo indietro di molti anni. Ecco perché è essenziale avere il LEO cargo: per garantire un minimo di autonomia e sicurezza. Ovviamente, spero che questo si accompagni a un aumento dell’ambizione europea, puntando anche a trasporti con equipaggio e a capacità che possano adattarsi, in futuro, al trasporto verso la Luna o altre destinazioni.
Ringraziamo Samantha Cristoforetti per l’intervista, e l’Istituto Affari Internazionali per l’invito esclusivo.
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