Esplorare lo spazio è la sfida del nostro tempo. Ogni giorno, per ambire a conquistarlo per davvero, gli scienziati devono confrontarsi con difficoltà enormi, talvolta insormontabili. Nel corso dell’ultimo secolo, l’enormità della sfida ha fatto sì che si coinvolgessero sempre più risorse, sempre più persone e quindi sempre più modi di pensare e di approcciare i problemi. Le missioni spaziali si sono globalizzate, portando enormi vantaggi ma anche non pochi problemi.
Come si può rendere la comunicazione efficace tra aziende ed enti spaziali provenienti da tutto il globo e far sì che ogni persona sappia cosa fare e cosa è stato fatto?
Come è possibile che nel film fantascientifico The Martian i ragazzi del JPL siano stati in grado di ripescare fuori dal cilindro una copia esatta del Pathfinder atterrato su Marte nel 1996? Sorprendentemente, a tutte queste domande, c’è un’unica risposta.
La situazione Europea
Andiamo con ordine, guardando alla situazione europea. Nel 1993 l’Agenzia Spaziale Europea decise di seguire l’esempio degli americani e fondare l’ECSS (European Cooperation for Space Standardization) per regolamentare lo sviluppo di una missione spaziale. Come già accennato, ciò si rese necessario anche per il fatto che ESA iniziava ad appaltare sempre più lavori ad aziende esterne. Il passaggio di documenti iniziava quindi a farsi notevole e andava regolamentato. In realtà, l’ESA già lavorava secondo il processo del Mission Life Cycle (MLC), ma non esisteva un ente che ne normasse l’utilizzo, ne codificasse il milione di acronimi (esiste un app apposita!) e soprattutto fornisse dei test univoci per valutare e quindi approvare la missione in questione.
Al giorno d’oggi, quindi, l’utilizzo del processo MLC, potenziato dalle direttive ECSS, è necessario per rendere una missione riproducibile per chiunque ne legga i rapporti, scandire delle fasi e delle tempistiche di lavoro e rendere comprensibili, giustificandole, le scelte che portano alla trasformazione degli obiettivi di missione prima in requisiti tecnici e poi in soluzioni di implementazione. Il processo diventa utile per avere lo storico di ogni scelta compiuta in ambito di progettazione!
Nel momento in cui qualcosa va storto, e bisogna investigarne i motivi, oppure quando qualcosa va incredibilmente bene, e la si vuole replicare, si cercano risposte in questi documenti. Per esempio, è grazie a questo metodo che abbiamo scoperto perché la sonda Schiapparelli si schiantò, esplodendo, sulla superficie Marte nel dicembre del 2016 invece che atterrare dolcemente.
Tra parentesi, si trattò di un errore di conversione di unità di misura che ingannò il giroscopio. Quest’ultimo diede ordine ai retrorazzi di spegnersi quando la sonda era ancora ad una quota troppo elevata. Nel processo di sviluppo di una missione ci sono sette fasi, ognuna conclusa dalla redazione di un documento dettagliato che la riassume. Questi documenti conclusivi sono detti “milestones” e ovviamente ognuno di loro ha un acronimo tutto suo. Nell’immagine sottostante si possono vedere dove questi documenti sono collocati nell’intero processo.
Le sette fasi di una missione spaziale
FASE-0
La prima fase è detta FASE-0 (pre-phase A) e serve definire il “Why” della missione. Gli obiettivi della missione necessitano di una forte motivazione giustificata da un’analisi completa e comprensiva dello Stato dell’Arte (cioè lo sviluppo di quella tecnologia ad oggi), evidenziando le carenze o i miglioramenti attuabili, specificando gli impatti sociali, scientifici e tecnici che la riuscita della missione può portare. Si definiscono gli obiettivi qualitativi e statici, immutabili nello sviluppo del lavoro. Per esempio, se l’obiettivo di Pathfinder è osservare la superficie marziana, l’obiettivo qualitativo è quello di avere una videocamera.
FASE-A
La seconda, FASE-A, è un’analisi di fattibilità che definisce i requisiti di missione “The What”. Ci si occupa quindi di portare da qualitativo a quantitativo il requisito definito in fase-0; ad esempio, la necessità di avere una videocamera si trasforma nella risoluzione, nel peso e nel costo della stessa. Sono obiettivi dinamici, che possono cambiare in fase di progettazione per adattarsi ai vincoli che sorgono durante la progettazione.
Infatti, si definiscono anche i drivers della missione, definendo i parametri liberi dell’ingegnere (che pannelli solari scegliere ad esempio) e i vincoli ai quali egli deve sottoporsi (come il budget economico).
FASE-B
La terza, FASE-B, definisce il “The How”, cioè i requisiti di sistema necessari a realizzare i requisiti di missione. Si definiscono quindi i requisiti funzionali, cioè le funzioni che il sistema deve saper fare (far ruotare la telecamera) e, per ogni funzione, il grado di prestazione che si può raggiungere (quanto tempo ci mette i braccio meccanico a ruotare). In questa fase si organizzano anche le tempistiche di lavoro.
La terza fase si conclude con il Preliminary Design Review (PDR) che descrive il sistema completo e i suoi sottosistemi, descrivendone i requisiti operativi e di interfaccia.
FASE-C
La quarta è la FASE-C che è la definizione dettagliata del sistema, comprensiva di disegni meccanici e di software. Si sceglie cosa comprare e cosa costruire. Si conclude con il Critical Design Review (CDR) che contiene tutte le informazioni per assemblare e integrare il sistema: da qui, non si può più tornare indietro, la progettazione è completa.
FASE-D
Con la FASE-D, inizia il MAIT (Manifacturing Assembly Integration Testing) e si inizia a costruire i componenti, testarli e assemblarli. I test di idoneità si svolgono sul singolo componente, sul singolo sottosistema e sull’intero sistema, seguendo un preciso development approach.
È qui che entra in gioco la copia del Pathfinder di cui parlavamo sopra. I ragazzi del JPL, nel film, lo utilizzano per fare le prove di comunicazione con Mark, simulando a terra la sua situazione su Marte. Questo fatto è uno dei più scientifici dell’intero film: l’esistenza di un prototipo perfettamente uguale a quello spedito su Marte. Questo prototipo faceva parte di quelli utilizzati per i test pre-lancio. I test sono importantissimi! Lo spazio è inospitale quanto affascinante; basta davvero poco perché il frutto di anni di lavoro svanisca in uno sbuffo di fumo o venga fritto dai raggi cosmici. Ci sono tre tipologie di test:
- Test di sviluppo di supporto alla definizione preliminare e validazione dei modelli matematici.
- Test di qualifica, per dimostrare che il sistema è capace di sostenere il lancio e l’ambiente spaziale con un significativo margine di sicurezza, quindi portandolo anche in condizioni di overstress. Sono essenziali perché evidenziano eventuali difetti sconosciuti al progettista. Una filosofia americana sui test di qualifica segue la l’idea del “test it until you break it” (vedi Starship).
- Test di accettazione, per stabilire se il sistema può volare.
Per ragioni di sicurezza, un sistema overstressed non può volare, anche se ha superato con successo tutti i test di qualifica. È necessario costruire un secondo sistema, nominalmente uguale al sistema overstressed, ma per sottoporlo solo ai test di accettazione, per poi permettergli di volare. Quanti sistemi vanno costruiti quindi? Quanti Pathfinder il JPL ha nascosti in cantina? Ovviamente dipende dal tipo di missione: più sono gli elementi innovativi da considerare, più test andranno operati e quindi più prototipi costruiti.
Si parla di prototype approach quando si lavora ad un nuovo progetto, con elementi sconosciuti dei quali non vi è sufficiente storia di volo per potersi fidare completamente. Per questo costoso prototype approach servono cinque modelli: uno per la parte strutturale, uno per la parte elettronica, un modello di qualificazione da overstressare, un modello per volare e infine uno spare model di riserva costituito da pezzi dei modelli precedenti (escluso quello per volare) e che può essere utile per simulazioni a terra, proprio come nel film. Perciò sì, di Pathfinder in cantina ce ne sono almeno un paio.
Si utilizza invece il protoflight approach per progetti con significativa storia di volo, dove un modello di qualificazione non è propriamente necessario e quindi viene eliminato e sostituito da un modello di protoflight che viene sottoposto a tutti i test necessari senza overstress e che poi potrà anche volare.
FASE-E e FASE-F
A questo punto, inizia la FASE-E, comprensiva del trasporto dello spacecraft dai laboratori al sito di lancio, delle operazioni prelancio, dell’accensione dei motori e del viaggio fino all’orbita, dove inizierà la missione vera e propria.
Dopo la missione, schedulata in maniera separata, si entra in FASE-F con le operazioni di dismissione che prevedono la chiusura della missione con lo spegnimento definitivo del sistema in volo.
Programmare e concludere una missione spaziale è quindi un processo estremamente complesso che richiede l’impiego adeguato di risorse umane, economiche e tecniche. Tuttavia, è l’unico metodo che abbiamo per far riuscire più missioni possibile; infatti, la codificazione e la precisione aiutano gli ingegneri a non litigare troppo con i colleghi. A non perdersi quando sopraggiungono gli imprevisti e ad attuare gli obiettivi di missione.
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