Dalla laurea in Architettura al Politecnico di Torino con specializzazione in Progettazione Computazionale all’Hyperbody Research Group in Olanda presso TU Delft, fino al lavoro presso l’MIT di Boston al MediaLab per il Responsive Environments research group e la Space Exploration Initiative. Un percorso intrapreso alla ricerca dei numeri dietro le forme, che ha portato Valentina Sumini a immaginare oggi quali saranno gli edifici e le città che abiteremo lontano dalla Terra, su Luna e Marte. Oggi abbiamo avuto il piacere di intervistarla per capire cosa significa progettare gli habitat di un’umanità multiplanetaria.
Dal numero alla forma, dall’architettura terrestre a quella che ospiterà la nostra vita quotidiana su altri mondi. Quale mindset ti ha accompagnato attraverso questa evoluzione?
Durante i miei studi in Italia, la mia passione per i numeri si conciliava poco con l’approccio standard dell’epoca, per il quale la matematica e la progettazione formavano ambiti abbastanza separati. Soprattutto, l’urbanistica e l’architettonica tendevano a innamorarsi dell’idea del concept, inteso come mera forma estetica, tralasciando invece il processo in grado di portare a quella forma. Tuttavia, era quest’ultimo l’aspetto che più mi premeva approfondire e sviluppare, e sentivo la necessità di trovare un contesto in cui poter unire questi due mondi. Lo trovai in Olanda, dove l’aspetto computazionale si stava sempre più integrando nel mondo del design.

L’avvicinamento al contesto spaziale avvenne in questi anni quando, durante il Master in Management of Innovation dell’Alta Scuola Politecnica, partecipai per la prima volta ad un progetto di albergo sulla Luna, MOOREA. Ho continuato poi a Milano con gli studi di Dottorato in sistemi di costruzione antisismici e grattacieli, un settore in cui ingegneri e architetti si sono confrontati da sempre con numerose incognite, elaborando strategie per anticipare le incertezze e spesso con pochi strumenti a disposizione. Esattamente quello che accade nella progettazione di futuri habitat nello spazio, dove è ancora difficile o impossibile testare strutture e materiali, trattandosi di ambienti a cui non abbiamo pressoché accesso. Lo spazio ci pone nella condizione di dover progettare senza sapere tutto, ma essendo disponibili a mediare rispetto ai vincoli.
Come affrontate questo mare di incognite? Esistono standard di riferimento da cui partire?
Serve un approccio matematico, ed una progettazione fortemente orientata a obiettivi, tra cui la salute ed il benessere umani. Gli habitat mostrati sul portale del Media Lab del MIT, ad esempio, sono il risultato di una elaborazione algoritmica di parametri di base quali il volume abitabile, spessori ammissibili per assicurare la schermatura sia dalle radiazioni cosmiche che dall’impatto di micrometeoriti e la pressurizzazione interna, tutti aspetti che creano condizioni nettamente diverse da quelle a cui siamo abituati sulla Terra. Le strutture lavorano tutte in tensione e non compressione, presentando un’inversione di forze di cui i modelli impiegati tengono conto per ottimizzare il progetto finale e sviluppare espedienti formali che non si limitano esclusivamente all’estetica.
Tra i fattori che al momento limitano di più le ambizioni progettuali nello spazio, vi è senza dubbio la massa necessaria per la costruzione. Diversi progetti puntano a impiegare materiali in loco per la costruzione, tuttavia le incognite per un processo simile risultano ancora eccessive e le prime soluzioni dipenderanno probabilmente da materiali inviati dalla Terra. Ridurre al minimo la massa trasportata diventa quindi una priorità.

Ho lavorato su diversi progetti per la Luna e Marte. Per la Luna, un progetto è stato quello del Moon Village, città lunare sviluppata in collaborazione anche con l’ESA. La sua realizzazione sarebbe prevista per il 2030, posizionata presso il Polo Sud della Luna, area ottimale per aspetti quali presenza di ghiaccio, illuminazione e la significativa possibilità per gli astronauti di vedere direttamente la Terra.
Per Marte invece, con il progetto la sfida è stata costruire non un unico habitat isolato ma più strutture complesse e comunicanti. L’aspetto interessante è l’aver utilizzato un algoritmo che prende spunto dall’ecosistema di una foresta, una foresta di sequoie, e da come i vari alberi si sviluppano, creano i sistemi di radici, i rizomi, sono posizionati ed entrano in relazione tra di loro, e lo adatta ad un habitat adatto alla permanenza umana.
La città sarebbe formata da moduli tutti diversi tra di loro, basandosi sull’idea che ogni struttura dovrebbe svolgere funzioni diverse e complementari alle altre. Se dovessimo impiegare un unico modulo capace di fare un po’ di tutto, le dimensioni del modulo sarebbero necessariamente ridotte. Tuttavia, per missioni quali la colonizzazione di Marte, il limite delle dimensioni mal si sposerebbe con la maggiore durata della permanenza umana. Diversificare i moduli, ottimizzandoli per funzioni specifiche, rappresenterebbe così un presupposto per incrementare non solo la dimensione del singolo habitat ma anche per favorire l’espansione dell’intera città colonia.
Nei progetti che mi hai segnalato, mi ha colpito molto l’interesse a includere spazi dedicati alla meditazione oppure adattati per passeggiate nel verde.
Si tratta chiaramente di soluzioni orientate al supporto del benessere mentale della persona. Come viene approcciato questo aspetto?
Architettura e design sono a prestito della psicologia. In questo caso particolare, il loro obiettivo è migliorare le performance dell’astronauta partendo dal design degli ambienti, oltre a garantire sicurezza ed efficienza.

Il rapporto tra architettura e benessere mentale viene affrontato su vari livelli. Nel caso del progetto della serra idroponica proposta alla NASA Big Idea Challenge 2019 Marsboreal Greenhouse, l’obiettivo iniziale era quello di includere nel volume previsto dalla struttura inviata dalla Terra una zona adibita alla vegetazione, pensata per coprire il fabbisogno calorico degli astronauti durante il tempo di missione (600 giorni). Rispetto agli altri team che hanno utilizzato esattamente il volume di partenza della struttura, il nostro ha optato per una proposta più radicale, chiedendo dello spazio extra dedicato non solo a ospitare la serra, ma soprattutto abilitare ad un’interazione tra umani e piante. Il progetto è stato sviluppato prevedendo una rampa elicoidale con uno spazio meditativo in cima ed un flusso d’acqua costante, una sorta di cascata, fornendo, oltre a stimoli visivi, anche un ambiente uditivo utile a promuovere il benessere della persona.

Per adattare il design architettonico alle necessità degli astronauti, vi è un continuo dialogo tra i progettisti e gli astronauti stessi, tra cui desidero citare Paolo Nespoli, Research Affiliate del MIT-MediaLab e Jeffrey Hoffman, Professore a MIT AeroAstro. Da questi confronti sono nati diversi progetti interessanti. Tra questi, una ricerca volta a mostrare come la nostra esperienza nel mangiare un determinato cibo possa cambiare in base al packaging in cui è racchiuso e all’ambiente circostante percepito dalla persona. Oltre a ripensare materiali e forme del packaging, ma per modificare l’ambiente circostante abbiamo usato la realtà virtuale per immergere gli astronauti in scenari a 360°, rappresentanti l’orto di casa o magari proprio l’abitazione personale.
Una delle sfide più importanti emerse da questi studi e vissute dagli astronauti è la lontananza dai propri cari e dalla propria casa. Spesso, per far fronte alla complessità di questa nostalgia, gli astronauti portano con sé oggetti della loro quotidianità con cui ricollegarsi emotivamente alla Terra. Una sensazione che spesso li fa sentire in colpa, sopraffatti da emozioni che non avrebbero immaginato così disorientanti nonostante anni di training per la missione.

Sulla ISS, oltre la ridotta varietà di stimoli sensoriali, emerge anche il problema della privacy. Avete pensato a possibili soluzioni e spazi dove gli astronauti possano periodicamente ritrovare la propria sfera personale?
Su questo, in collaborazione con il NASA TRISH ho lavorato al progetto del Tidmarsh Living Observatory Portal. Il Tidmarsh è oggi una riserva naturale di più di 200 ettari all’interno del quale i ricercatori del MediaLab hanno posizionato un network di sensori utili a monitorare nel tempo una grande varietà di condizioni fisico chimiche per la conservazione dell’ambiente, tra cui anche registrazioni in tempo reale di suoni e scenari visivi.
Partendo da questi, abbiamo pensato ad una soluzione sviluppata in forma di cocoon entro cui proiettare le registrazioni, permettendo alla persona di immergersi nella natura senza però isolarsi totalmente dall’ambiente circostante. Questo piccolo spazio sarebbe delimitato da tende, realizzate in carta tailandese e seta per fornire, oltre ad una gradevole estetica, anche una non indifferente percezione tattile. Internamente, la superficie sarebbe invece di seta, abbastanza liscia da offrire una visione uniforme dei contenuti audiovisivi proiettati su di questa.

Attenzione particolare sarebbe riservata all’aspetto sonoro, grazie alla moltitudine di registrazioni raccolte con i sensori posizionati nel parco naturale, capaci di restituire una profonda immersione acustica nella natura terrestre. Un’evoluzione di questo sistema consisterebbe nel mappare l’ambientazione naturale e convertirla in scenario interamente digitale, aggiungendo la possibilità per l’utente di esplorarlo in realtà virtuale.
Offrire spazi per la privacy, oltre che per il benessere mentale della persona, può diventare strategico per promuovere il conflict resolution entro il gruppo. Il training pre-flight orientato alla gestione dei conflitti interpersonali non viene affrontato allo stesso modo in tutte le agenzie spaziali. Più la composizione dell’equipaggio risulta variegata, più eventuali conflitti possono emergere ed essere gestiti non sempre in maniera ottimale. Gli astronauti non hanno dove allontanarsi durante questi momenti, ed ecco che emerge forte la necessità di prevedere ambienti dove il singolo può liberamente elaborare tensioni e stress.
Mentre ci stiamo abituando a vivere una vita da nomadi digitali, oggi abbiamo scoperto come si stanno già creando le basi per un futuro di nomadi multiplanetari, in cui “Casa” non sarà un’idea legata solamente al nostro pianeta blue. Ringraziamo ancora una volta Valentina Sumini per questo viaggio nella progettazione spaziale, e per approfondire ulteriormente vi suggeriamo di ascoltare il suo intervento al TEDxBologna.